È un film realizzato da un amante del cinema, per gli amanti del cinema, “The French Dispatch”, ultima opera firmata Wes Anderson. Omaggio a quel miglior giornalismo che ancora oggi sopravvive a stento, quello di riviste come “The New Yorker”, la pellicola racconta la vicenda di un periodico francese frutto di una passione editoriale capace di andare oltre il mero ritorno economico e, allo stesso tempo, traspone per immagini le diverse storie narrate negli articoli dello stesso. Tasselli di un’opera che si fa dunque antologica, le interviste e gli approfondimenti narrano con leggerezza e ironia e con un ritmo quasi sempre capace di mantenere viva l’attenzione dello spettatore, di artisti carcerati, giovani rivoluzionari annoiati e rapimenti ai limiti del ridicolo. C’è tutto, in “The French Dispatch”: c’è la parola scritta del giornalismo, delle copertine, dei sottotitoli in direzioni bizzarre per un occhio occidentale; c’è la parola parlata delle diverse lingue; c’è il teatro; c’è la fotografia realizzata per mezzo dell’immobilità degli attori; c’è l’animazione; c’è la miscellanea dei generi; c’è il bianco e nero alternato al colore (spesso in maniera repentina e innovativa); c’è il 16:9 che lascia spazio al 4:3. E poi, e prima ancora di tutto il resto, c’è Wes Anderson, con le sue simmetrie, i suoi movimenti di macchina e le sue palette pastello che lo hanno reso celebre e immediatamente riconoscibile.
Al bar, poco prima che il film uscisse nelle sale, ci si chiedeva tra amici quale potrebbe essere l’opera “andersoniana” per definizione. A posteriori, verrebbe da azzardare che sia questa, questa perfetta sintesi di ogni cosa, che fa un passo indietro rispetto alla verbosità eccessiva di alcuni film precedenti e lascia spazio all’intuizione migliore, sperimentando e non adagiandosi nella reiterazione di “ciò che fin qui ha funzionato” (come forse un po’ facevano titoli noti come “Grand Budapest Hotel”). Con un cast eccezionale a fare da spalla – Bill Murray, Owen Wilson, Benicio del Toro, Tilda Swinton, Adrien Brody, Timothée Chalamet, Frances McDormand, Edward Norton, Elisabeth Moss, Willem Dafoe, Christoph Waltz – stavolta Anderson confeziona un abito perfetto, in cui ogni punto è posto esattamente dove andava posto. E lo fa, come si diceva all’inizio, avendo negli occhi tutta la storia del cinema, da quel palazzo che apre la pellicola, così smaccatamente ispirato a Jacques Tati e a “Mon Oncle”, passando per la Nouvelle Vague (e in particolare, in una scena a letto tra Chalamet e la McDormand, a “Fino all’ultimo respiro” di Godard), fino ad arrivare a pietre miliari della settima arte come “La passione di Giovanna d’Arco” di Carl Theodore Dreyer. Un gioco ambizioso – anche per i suoi toni sempre volutamente leggeri –, ma incantevole, che fa sognare gli appassionati.
È un gioco perfettamente riuscito.
Catturare lo splendore del vero
Citato in “The French Dispatch”, “Fino all’ultimo respiro” (“À bout de souffle”) è la pellicola, firmata da Jean-Luc Godard nel 1960, universalmente riconosciuta come manifesto della Nouvelle Vague. La scena specularmente ricostruita da Anderson vede nell’originale Jean-Paul Belmondo fumare a letto, seduto accanto a Jean Seberg, mentre intavola una discussione sui più disparati argomenti. Giocati su sceneggiature esigue, girati in pochi giorni a budget ridottissimo e con la minor attrezzatura possibile, i film del movimento francese che ha rivoluzionato il cinema avevano lo scopo di “catturare lo splendore del vero”, e di farlo decostruendo le regole classiche di una narrazione lineare e sempre chiara. Di qui, per esempio, le corse in strada senza logica geografica e la grande sperimentazione di movimento che getta i semi per il cinema di oggi, Anderson compreso.