Ogni giorno che passa mi convinco sempre di più che Luigi Pirandello aveva profondamente ragione quando scriveva Uno nessuno centomila. E, badate bene, correva l’anno 1926. È la storia di Vitangelo Moscarda, di un suo difetto fisico e di una frase, detta dalla moglie, che gli rimanda un’immagine che non coincide minimamente con la sua personale versione di sé. Ebbene in quel momento il soggetto scopre che non esiste una realtà, bensì tante realtà quante sono le persone che vivono in questo mondo. E allora da secoli, almeno dal Rinascimento in poi e sicuramente dal Positivismo, chi predica che bisogna aprire gli occhi sulla realtà ci ha mentito? Quale realtà? Questo preambolo nasce da una constatazione: se la realtà che noi oggi viviamo non coincide con le nostre idee, sogni e speranze, beh! quella è soltanto una delle tante e infinite realtà con cui quotidianamente ci dobbiamo confrontare. Come tutte le realtà anche questa in cui siamo immersi è un’astrazione e ben lo avevano teorizzato gli artisti rinascimentali nel tentativo di imbrigliare l’oggettività attraverso la prospettiva, la ricerca di una nuova spazialità. Quindi se ciò che sta fuori di noi in questo momento non ci aggrada e non ci ritroviamo minimamente in questo bailamme di urla, sproloqui, false promesse, motteggi e offese, difese di caste, di tentativi di isolarci nei nostri piccoli bozzoli e di calmarci con una sequela di “illusioni” allora non ci rimane altro che “ritirarci” nel nostro mondo nella consapevolezza che prima o poi anche questa realtà sarà sostituita da un’altra illusione.
O, per dirla con Henri Laborit, in tempi come questi
la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare. Questa frase, famosa grazie a Gabriele Salvatores (è la frase finale del film Mediterraneo), non ha mai perso la sua attualità, anzi, può essere o dovrebbe essere il leit motiv di ogni individuo. E per non incorrere in ambiguità vorrei riportare un’ulteriore frase di questo anticonformista biologo e filosofo francese riportata nel libro Elogio della fuga: “Quando non può lottare contro il vento e il mare per seguire la rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa”. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio.
E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte.
Fuggire dove? Nella mitica terra degli dèi, in qualche isola greca? O perdersi nel melismatico mondo sonoro del Marocco? A dir il vero basterebbe anche un buon libro, immergersi nella storia, sognarla, pregustarla, immaginarla. Non cadere nelle malie delle eterne sirene che ci dicono che l’evasione è peccato – eh sì, perché
c’è sempre qualcuno che crede ancora che “Il Signore degli Anelli” o “Harry Potter” siano libri che distolgono dalla realtà –, che perdersi (per ritrovarsi) è tempo sprecato, ecc. Fuggire, evadere, leggere, sognare ad occhi aperti per ore, vuol dire invece capire che non tutte le prigioni hanno le sbarre: ve ne sono molte altre meno evidenti da cui è difficile evadere, perché non sappiamo
di esserne prigionieri. “Sono le prigioni dei nostri automatismi culturali che castrano l’immaginazione,
fonte di creatività” (Henri Laborit).
Fuggire non per indietreggiare, ma per avanzare; cantare l’immaginazione perché di questa non ne abbiamo mai abbastanza: lo avevamo capito già negli anni della Contestazione quando si urlava immaginazione al potere ma il tentativo è stato vanificato da chi ci ha imposto
il concetto di “realtà”, la visione della realtà,
esser realistici…
Passeranno anche gli urlatori, i falsi profeti, i venditori di fumo e di speranze. A tutti questi rispondiamo evadendo dalla loro realtà, scappando a piè veloce dal loro mondo. E dobbiamo farglielo sapere, dicendolo, cantandolo, disegnandolo.