Torna in sala, a 25 anni dalla sua uscita, la versione restaurata de Il giardino delle vergini suicide, debutto dietro la macchina da presa di un’allora nemmeno trentenne Sofia Coppola (figlia dell’immenso Francis Ford, ma anche – per chi non avesse misura del potere della famiglia Coppola a Hollywood – sorella di Roman e zia di Gia, entrambi registi, e ancora, nipote di Talia Shire, la Adriana di Rocky, cugina di Nicholas Cage, ecc. ecc).
Un debutto che, al di là dei nepotismi e dei legami di sangue, la distingue fin da subito nel panorama, proclamandola una stella nascente e, ben presto, una di quelle registe che hanno segnato e tracciato un modo, proprio degli anni Duemila, di fare cinema. Il giardino delle vergini suicide (ma poi a seguire anche Lost in Translation – L’amore tradotto, o Marie Antoniette) è un film con un’impronta chiara, con uno stile definito: toni onirici, inquadrature pulite ed eleganti, un indissolubile legame immagine-musica (spesso attinta dal contemporaneo, nonostante le trame), sguardo pop, colori pastello, narrazioni al femminile… I film di Coppola si riconoscono, spesso, già solo dalla prima sequenza di apertura. Era così in Il giardino delle vergini suicide, con Kirsten Dunst in rosa che mangia un lecca-lecca; era così in Marie Antoniette, con Kirsten Dunst che si sveglia a letto dai toni pastello nella reggia austriaca; è così in Priscilla, altro film da lei firmato al cinema in queste settimane, con le unghie smaltate di Caileen Spaeny sul tappeto rosa a pelo lungo.
Eppure, da quel debutto a questo ultimo lavoro, qualcosa è cambiato: Priscilla, tratto dal memoir di Priscilla Beaulieu Presley Elvis and Me, racconta il rapporto della stessa con il re del rock’n’roll, al quale fu sposata dal ‘67 al ’73. La storia – che va da un lento corteggiamento a un turbolento matrimonio – è quella, come già in Le vergini suicide e non solo, di una donna rinchiusa in una gabbia d’oro. Un tema forte per Coppola che, tuttavia, qui raggiunge risultati piuttosto scarsi, dando vita a un film nel complesso debole e alquanto noioso: la trama non decolla praticamente mai, srotolandosi piatta e lineare come un compitino eseguito con poco interesse; la profondità, la passione, l’emozione non arrivano nemmeno nei momenti più forti, vuoi anche per la scelta di due attori protagonisti di scarso pregio, Cailee Spaeny e Jacob Elordi che, sebbene non siano malvagi, sembrano più concentrati ad essere bellissimi che altro, con una gamma espressiva molto ridotta. Si potrebbe pensare a una ciambella riuscita senza il buco. Non fosse che, a ben guardare, Sofia Coppola non firma un film degno di quell’acclamazione che il suo nome suscitava praticamente dai tempi di Marie Antoniette, di fatto suo apice stilistico. Ed era il 2006.
La prima volta della piccola Sofia
Non certo unico film firmato da Francis Ford Coppola, ma indubbiamente, oggi, quello che lo rende immediatamente riconoscibile e riconosciuto, è Il padrino. O meglio, la trilogia de Il padrino. Flop al botteghino al momento dell’uscita, negli anni è diventato una pietra miliare del genere gangster-mafia, con citazioni riprese e abusate in lungo e in largo, e scene copiate e riadattate in ogni dove (basti pensare alla celebre testa di cavallo nel letto). Non in molti sanno, tuttavia, che in quella trilogia, Sofia Coppola comparve ben due volte: la prima, nella prima parte, ancora in fasce, nella parte del figlio di Michael Corleone (interpretato da Al Pacino) al momento del battesimo; la seconda, nella parte terza, in un ruolo più corposo, ma decisamente mal riuscito: quello di Mary Corleone.