Una risposta alle nostre razionali vite

Secondo il report dell’Espad del 2019, in quasi ogni Paese europeo più della metà dei giovani in età da liceo ha consumato o consuma alcol. Un dato che raggiunge il 92% in Danimarca. Se, poi, la media eurozona per l’uso di alcolici nell’ultimo mese si assesta attorno al 47% e la conseguente ubriacatura al 13%, ancora una volta, per la Danimarca i numeri sono ben differenti, rispettivamente il 74% e il 40%. Quello del consumo di alcol tra i giovani sembra essere insomma, per il Paese scandinavo, un problema molto serio. È da qui, che parte “Un altro giro” (“Druk”), ultimo film firmato Thomas Vinterberg e premiato con l’Oscar, ed è qui che, ciclicamente, dopo averci condotto tra vicende e riflessioni, il regista danese ci lascia, con l’ultima, liberatoria scena: gli sregolati giochi alcolici tra ragazzi, in un Paese in cui, per dirlo con le parole di uno dei personaggi, “si ubriacano tutti”. Nel mezzo, ciò che ha reso celebre e chiacchierata la pellicola negli ultimi mesi: un esperimento socio-psicologico. Secondo una teoria dello psichiatra norvegese Finn Skårderud (che pure ha di recente smentito, affermando di essere “stato travisato con entusiasmo”), infatti, nell’equilibrio ideale di ogni essere umano mancherebbe uno 0,05% di tasso alcolico per poter vivere e interagire al meglio delle proprie possibilità. Da qui, l’idea di quattro insegnanti, Martin (un come sempre straordinario Mads Mikkelsen), Tommy, Nikolaj e Peter, di incrementare con costanza e precisione (onnipresente l’etilometro) la percentuale di alcol nel sangue e documentarne gli effetti. Un esperimento che, pur cominciando nel migliore dei modi, si chiuderà con una parabola discendente di tracotanza, violenza, crisi familiari e personali (e con molto di peggio).

Quello che sembra raccontare all’apparenza Vinterberg, già regista di pellicole celebri come “Festen” e “Il sospetto” e co-fondatore del Dogma 95, è quindi una storia di celebrazione dell’alcol e dei suoi effetti positivi – la scomparsa di freni inibitori, il divertimento, l’accrescimento dell’autostima, lo stato di rilassamento -. Ma se, in realtà, così non fosse? O meglio, più a fondo, se il regista danese ci stesse fornendo tutti gli strumenti – ma non la chiave di lettura, non il metro di giudizio – per osservare e comprendere una realtà complessa? Certo, l’alcol, consumato responsabilmente, è parte di una vita comune, equilibrata, spesso sana e senza ripercussioni di sorta, ma possiamo davvero dimenticare lo spettro oscuro che esso porta con sé? Dalle “innocenti” difficoltà verbo-motorie ai veri danni conseguenti, Vinterberg non fa segreto di nulla, mettendo in scena più che l’inno alcolico sul quale spesso ci si è voluti soffermare, la molteplicità del reale, dandoci, attraverso proprio il rapporto con i più giovani (e i tanti suggerimenti “balzani” disseminati qua e là dai quattro insegnanti) la vera interpretazione di un Paese che, sotto la superficie, nasconde una sincera piaga sociale.

Resistere all’imminente catastrofe

Dire “Danimarca”, nella settima arte, vuol automaticamente dire anche Lars Von Trier. Tra i fondatori del Dogma 95, che richiedeva un cinema “qui ed ora”, privo di oggetti di scena e di azioni superficiali, nonché di musica e di marchingegni per muovere la macchina da presa (consentita, la sola spalla umana), girò, seguendo quei suoi stessi dettami, la pellicola “Idioti” (Dogme#2). Sono però lungometraggi del calibro di “Dancer in the Dark”, musical con Björk che gli valse la Palma d’Oro a Cannes, e “Dogville”, con la sua totale, astratta privazione di ambientazione, ad averlo reso celebre. Regista incapace di porre limite alla sua creatività e al suo sguardo negativo sul mondo, Von Trier raggiunge il suo apice – nel far discutere di sé – con il crudo “Antichrist” e lo scandaloso Nynphomaniac, ma rimane – per chi qui scrive – in primis il regista della trasposizione visiva della resistenza all’imminente catastrofe e l’elaborazione del tema della malattia psichiatrica, con la perfetta sinfonia visiva che porta il titolo di “Melancholia”.

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Pubblicato da Katia Dell'Eva

Laureata in Arti dello spettacolo prima, e in Giornalismo poi, nel quotidiano si destreggia tra cronaca e comunicazione, sognando d’indossare un Fedora col cartellino “Press” come nelle vecchie pellicole. Ogni volta in cui è possibile, fugge a fantasticare, piangere e ridere nel buio di una sala cinematografica. Spassionati amori: Marcello Mastroianni, la new wave romena e i blockbuster anni ‘80.