Poche cose come il calcio infervorano le persone. In tempi molto più antichi furono i combattimenti tra gladiatori, poi gli spettacoli circensi, infine arrivò lo sport. Dopo migliaia di anni, le persone continuano ad agitarsi attorno ad uno spettacolo costruito appositamente per loro. Certo, con il calcio è senz’altro meno scontato e più ingegnoso il meccanismo, la base però rimane quella. G. amava queste strane dinamiche, e voleva essere lui il supremo burattinaio che ne comandava l’andamento. Decise così di diventare arbitro, ovvero la persona preposta al controllo del rispetto del regolamento prestabilito. G. conosceva a menadito il regolamento, lo aveva studiato come un ossesso. Non era però il suo compito farlo rispettare. O meglio, a livello teorico, sì. Era quello che doveva fare. Però lui voleva semplicemente decidere come dovessero sentirsi le persone.
Era una giornata di un aprile pazzo, una domenica dove si esce con l’ombrello per poi svestirsi in preda ai calori di un sole anch’esso impazzito, finendo per ripararsi da un inaspettato quanto violento vento. G. arrivò al campo sportivo alla periferia di Trento con la sua Fiat Punto, allegro per ciò che lo aspettava. Sebbene si trattasse di una partita di seconda categoria, la categoria più bassa esistente, non per questo gli animi, in campo e fuori, erano sereni. Aveva con il tempo studiato una tattica per riuscire ad influenzare l’umore delle persone senza essere subito linciato o peggio, squalificato dall’associazione degli arbitri. Per le prime fasi di gioco faceva sfogare i giocatori, cercando di arbitrare secondo il loro umore e l’andamento della partita e delle tifoserie. In poche parole, accontentava un po’ tutti, per fare in modo che nessuno rimanesse deluso dal suo arbitraggio ma, piuttosto, dal gioco più o meno soddisfacente dei giocatori delle due squadre in campo.
Verso la fine del primo tempo iniziava a divertirsi. Di fronte a scontri di gioco abbastanza violenti, lui allargava platealmente le mani e continuava la sua corsa all’inseguimento della fase di gioco successiva. Con il passare del tempo, i giocatori e i tifosi dientavano sempre più nervosi. Nonostante le tante cose che si dicono su questi personaggi, a fronte dei suoi evidenti errori G. si meravigliava ogni volta della pacatezza con cui questi si rivolgevano a lui. “Direttore, questo era chiaramente fallo”. “Direttore, guardi cosa mi ha fatto”. “Direttore, ma come fa questo a non essere rigore? Non ha preso minimamente la palla!”. Sulle tribune invece iniziavano a fioccare gli insulti peggiori. E G. godeva. Era proprio quello il suo obiettivo. Fare sfogare le persone, farle infuriare, avere qualcuno con cui prendersela. Essere l’agnello sacrificale delle loro vite insoddisfatte.
Verso il termine dell’incontro si lasciava andare a sviste clamorose, come falli non solo non sanzionati, ma anche platealmente ignorati guardando dall’altra parte. E mentre i giocatori, ormai più simili a bestie, facevano capannello attorno a lui, G. non si scomponeva mai. Guardandogli, con un ghigno malcelato, diceva semplicemente: ”Per me non è fallo, mi dispiace”, per poi uscire finalmente soddisfatto per aver unito qualcuno grazie all’astio per la sua condotta.