Valeria Valentin è stata una donna eroica, che ha salvato centinaia di perseguitati dal regime di Pinochet in Cile. Nata nel 1937 a Badia è morta nel 2002 a Rodengo, sempre in Alto Adige. Era una donna serena e con una forte personalità. In lei ardeva il fuoco della giustizia. Era un’ex suora e suo marito un ex frate, insieme costituirono un gruppo per salvare gli oppositori al regime di Pinochet in Cile. Li facevano espatriare attraverso soprattutto l’ambasciata italiana, ma anche altre missioni diplomatiche, a Santiago. Valeria vide gli orrori della dittatura, le uccisero gli amici, rimase terrorizzata quando i militari sparavano sui bambini. Lei, non solo condannò il regime, fece di più: rischiò la vita ogni giorno per quattro lunghi anni per salvare molte vite umane, finché non fu costretta a lasciare il paese. L’impegno umanitario doveva rimanere un segreto fra lei e suo marito, nemmeno il figlio sapeva esattamente che cosa avesse fatto e che cosa era successo.
Nata in Val Badia, Valeria era la segretaria personale del vescovo Fernando Ariztià. In questo ruolo riuscì a tessere una rete clandestina, con l’appoggio delle alte cariche della Chiesa e di don Mariano Puga, considerato l’anima del Cile. Fu più volte interrogata e in più di un’occasione il cardinale di Santiago Silva Enriques dovette telefonare personalmente a Pinochet, minacciando una crisi diplomatica, se non avesse scarcerato la suora altoatesina. Il ricordo di Valeria Valentin era lucido, preciso, ecco il suo racconto.
“Partii per il Cile, eravamo in quattro missionari, e decidemmo di andare a vivere tra i poveri, nella baraccopoli di Santiago. Condividevamo la stessa vita, la stessa povertà. Diventai la segretaria di don Fernando Ariztià, chiamato dal regime il Vescovo Rosso. Vidi la repressione: venivano ammazzati tutti gli oppositori del regime, persone povere, operai, studenti… All’inizio erano incarcerati solo i leader dell’opposizione, poi la repressione investì tutti coloro che non condividevano le scelte di Pinochet. Anche uomini di Chiesa furono ammazzati, come il nostro amico Juan Alsina, un prete spagnolo che lavorava come infermiere. Noi avevamo scelto l’opzione radicale a favore della gente oppressa e agivamo in nome del Vangelo. Nel primo periodo della dittatura si vedevano i cadaveri galleggiare sul fiume che attraversa Santiago; colpivano un po’ qua e un po’ là per dare l’esempio. Ho cominciato l’attività subito, perché i fatti erano chiari. C’era il coprifuoco e bambini poveri vivevano sulla strada, non erano abituati a stare chiusi nelle loro baracche, la strada era il loro parco giochi. Ho visto con i miei occhi i militari uccidere un bambino e ferirne un altro. Nel nostro quartiere c’era Diego Segundo, un vecchietto che non faceva male a nessuno. Beveva e spesso si addormentava in un angolo di strada. L’abbiamo trovato morto nel fiume. Non era certo un estremista. Il vescovo Ariztià aveva dato vita al Comitato della Pace all’indomani del golpe. Avevo, dunque, un ruolo nel quale potevo organizzare, coordinare, dirigere e ampliare la nostra rete di collaboratori. Il nucleo centrale era composto da 10-12 persone. Tra loro, ricordo Mariano Puga, Pepe Aldunate, Roberto Bolton, Raffael Moroto. Credo che abbiamo salvato più di 300-400 persone, forse più. Non ho mai fatti i calcoli”.
I calcoli li hanno fatti i diplomatici italiani: le persone messe in salvo solo nell’ambasciata italiana sono state 800.
Nell’intervista, Valeria Valentin proseguiva nel suo racconto. “Una delle tecniche era quella di nascondere i ricercati nelle case o all’interno della baraccopoli, in ospedale o nei conventi e poi di notte farli raggiungere le ambasciate e la Nunziatura, aiutandoli a oltrepassare il muro di cinta. A quel punto erano in salvo. Poi, per farli espatriare non era più un problema. Dopo che erano entrati nelle sedi diplomatiche erano condotti all’aeroporto per essere espatriati. Noi arrivavamo di notte ed io mi mettevo con le spalle al muro e li aiutavo a scavalcare il muro. Telefonavo ai nostri amici che erano all’interno dell’ambasciata e loro mi dicevano: “Due Marlboro, 3 Hilton, ecc.”. La cifra indicava il numero di quelli che potevamo far scappare senza farci sorprendere durante il giro delle guardie, e la marca di sigarette specificava la via dove si doveva scavalcare il muro. L’unico che non venne in nostro soccorso era il nunzio apostolico, Dos Santos. Ma un giorno, in sua assenza, perché era a Roma, entrammo di forza nella sede. Il fatto è che nessuno è uscito dal Cile così in fretta come queste 27 persone: alle 11 di sera di quello stesso giorno erano già sull’aereo, destinazione Italia. Fin dal primo giorno andavamo allo Stadio National, dove avevano creato un lager. Mi hanno scoperta dopo il caso del sindacalista Nelson Gutierrez. Ma ho avuto una grande fortuna, per quasi quattro anni ho potuto lavorare clandestinamente. Anche se sospettavano di me, ma come europea e come missionaria avevo una certa libertà.
Fui interrogata dalle 9 del mattino alle 9 della sera. Alle spalle avevo quattro militari con la mitraglietta che di tanto in tanto facevano suonare il grilletto. Davanti altre quattro persone in abiti borghesi. Avevano scoperto il nostro gruppo, ormai sospettavano della Chiesa. Volevano conoscere il ruolo del mio vescovo e sapere i nomi degli altri. Non mi hanno torturata. Non avevo altra scelta: ammisi di aver salvato delle persone, ma aggiunsi che queste persone non avevano la possibilità di avere un processo giusto. In quello stesso anno fui interrogata una seconda volta per più di 12 ore. Ma fuori sapevano che ero in pericolo. Il vescovo avvisò il cardinale, il quale telefonò personalmente a Pinochet minacciando una crisi diplomatica se non mi avesse liberato. Ha agito in nome della Chiesa, disse, assumendosi così la piena responsabilità. Dovevo essere liberata: era un ultimatum e Pinochet comprese. Devo la mia vita al cardinale, ma dovetti lasciare il Cile”. “Nel 1978, rientrammo in Italia, in Alto Adige”. Fin qui il racconto della Valentin. Le feci un’ultima domanda: Rifarebbe tutto ciò? “Sì, senza esitazione”, rispose.
Un docufilm sulla sua vita
L’intervista che trovate qui sopra fu realizzata nel 1999: quella fu la prima e unica volta che Valeria Valentin parlò pubblicamente della sua vicenda in Cile, poi volle che non si parlasse più di lei. Negli ultimi anni si occupò dell’Africa e andò più volte in missione in Eritrea per la Caritas di Bolzano. E non smise neanche in quell’occasione di denunciare i soprusi e le privazioni della popolazione. Ora la Fondazione Museo storico del Trentino, tramite il suo direttore, Giuseppe Ferrandi, ha deciso di realizzare un docufilm sulla vita e sulla esperienza in Cile di Valeria Valentin. Ripercorrendo le varie tappe di quell’esperienza. Vi saranno le testimonianze del marito di Valeria, Carlo Pizzinini, del figlio Andres, di persone che l’hanno conosciuta e di altre che hanno condiviso la sua vicenda in Cile. Tra loro anche il braccio destro di padre Mariano Puga, scomparso alcuni anni fa, e anima critica dello Stato sudamericano, Paulo Alvarez, docente universitario. Le telecamere del Museo entreranno anche nella baraccopoli dove ha vissuto da povera fra i poveri la Valentin. Vi sarà anche l’importante testimonianza della suora Ursula Mc Carthy, irlandese, aiutante della Valentin. Le telecamere riprenderanno anche lo stadio di calcio di Santiago, lo stadio della morte, dove fu ucciso Victor Jara, cantautore, musicista, regista teatrale e poeta cileno, non prima di avergli rotto le mani perché non potesse più suonare. Di Valeria Valentin si è interessata recentemente anche la stampa francese. Il docufilm sarà pronto per l’inizio del prossimo autunno. (Francesca Rocchetti)