
Nella spiritualità le parole hanno un valore e una profondità di cui forse oggi fatichiamo a capire la portata. Anche quando queste sono assenti: silenzio, tacet. Oggi perfino il silenzio è diventato un vero e proprio business, un silenzio rumoroso, scandaloso, paradossale. Perché il vero silenzio fa paura, non è assenza di rumore ma è qualcosa in sé stesso. Di fronte a queste due parole, silenzio, tacet, si apre un universo mistico. Il silenzio non si rincorre. Come ci ricorda un monaco, «il silenzio è lui che ti chiama dentro, non sei tu che lo cerchi, è lui quasi che ti cerca».
Le tradizioni religiose monastiche, d’Occidente e d’Oriente, ricordano innumerevoli esperienze mistiche vissute nel silenzio. I silenzi religiosi sono infiniti come le religioni. Contrapposto alla parola, il silenzio sacro diventa esplicita denuncia dei limiti del linguaggio. Per testimoniare certe vie mistiche non rimane altro che il non dire, il tacere e aprire le porte al silenzio. Il silenzio parla, racconta, non è mai muto ma sempre eloquente. Chi si incammina sulla strada del silenzio, o lo usa, sa che il silenzio è parola autentica, unico argine in grado di arrestare l’onda delle parole a vanvera, aprendoci a nuove dimensioni del reale. La mistica Madeleine Delbrel (1904-1964), che a 17 ha scritto «Dio è morto […]», ci ricorda che il silenzio «è un’aquila dalle ali forti che vola alto sullo strepito della terra, degli uomini e del vento».
Le voci del silenzio, per i mistici e gli anacoreti, sono strumento di perfezione e condizione privilegiata per il rapporto con Dio, e ci evitano i clamori demoniaci della quotidianità. Il silenzio è un’esperienza sonora: in quel momento si percepiscono le preghiere che lo riempiono, i cori angelici, le urla melismatiche dei Deva indù, il canto dei mantra, l’eco del respiro dell’esicasmo (hesychia) del monachesimo orientale. Un fanciullo tibetano sfiora con la mano la ruota delle preghiere: queste, silenziosamente, salgono per l’asse centrale del mondo, verso il cielo, portate dal vento. Non c’è traccia di rumore e di verbosità, solo il cigolio della ruota. Eppure l’aria ha la capacità di spostare le cose, di causare tempeste o elargire la piacevolezza dei raggi solari.
In tutte le religioni ci sono dei codici iconografici che servono a raffigurare il silenzio. Il velo ha la capacità di isolare rispetto all’ambiente, mostrando un’indisponibilità comunicativa. Dall’antica Grecia ci viene invece il signum Harpocraticum, il gesto del dito che chiude la bocca, l’assenza della parola, il silenzio come primo passo per la saggezza, per il mondo del mistero e dei misteri.