Suona quasi come la scoperta dell’acqua calda, tanto è semplice e scontato. Ma c’è chi l’ha fatto diventare una mania, passando ore ed ore a spulciare tra le occasioni. E c’è chi invece l’ha reso uno scopo di vita, traducendolo in attività lavorativa. Certo è che del passatempo del momento se ne parla proprio tanto, sia attraverso i mezzi di comunicazione, sia tramite il passaparola. Ma se all’apparenza può sembrare un modaiolo fenomeno passeggero, nella sostanza nasconde un intrinseco significato sociale ed economico. Sì, perché il Vintage e tutto quello che rientra nella definizione di “seconda mano” non rappresenta solo un sistema d’acquisto, ma lo specchio di una società divenuta più sensibile alle grandi tematiche umane. Chiaro, perché la diffusa sensazione generale dello spreco delle risorse e la voglia di contribuire – anche individualmente, in piccola parte – al rallentare dei disastri ambientali, anima le coscienze. E se poi ci mettiamo pure il fatto che nelle tasche degli italiani non circola proprio tutta questa sonante disponibilità (complici le crisi cicliche dell’economia e la congiuntura pandemica), il gioco è fatto. E allora si aprono gli armadi e si schiude davanti agli occhi un mondo che non ti aspetti. Ma come accidenti abbiamo fatto ad accumulare nel tempo una tale quantità di vestiario ed affini? Non sappiamo più dove stipare quelle taglie ormai passate, quel modello che a te proprio non stava bene, quel doppione acquistato solo perché era in offerta a metà prezzo. E quando ti coglie il raptus di riordinare gli armadi, ti ritrovi il letto coperto da una massa volumetrica di abbigliamento che definisci inservibile. Che farne? È molto più di un problema. A questo punto si presentano varie possibilità per l’accumulatore compulsivo di abiti & C. L’istintivo imballa di buon ordine e conferisce quatto quatto al primo CRM; il riflessivo soppesa quanto è realmente da eliminare con quanto è invece da mettere eventualmente in vendita; l’affarista non ci pensa un attimo e piazza l’armadio da sostituire in tutti i canali possibili che il mercato offre. Ma come si vende oggi l’abbigliamento che non serve? Quali sono le piattaforme digitali sulle quali postare un capo che non si mette più? E, soprattutto, cosa si vende, quali tipologie di abbigliamento “tirano” maggiormente? E chi lo fa, agisce unicamente per lucro o per uno spiccato senso ecologico?
Nella nostra inchiesta su quello che possiamo definire come il mondo del riuso, abbiamo sentito più voci ed esplorato scenari in rete che ci hanno confermato come il Vintage sia effettivamente un fenomeno attualissimo, in grado di creare interesse sia per chi cerca che per chi vende.
Vinted
Se gli aggiornatissimi modaioli ci passano ore a prendere in esame abiti ed oggettistica ancora in condizioni accettabili e degna comunque di essere rimessa in circolazione, anche i meno tecnologici hanno capito di che cosa si tratta: mettere in vendita, come dice il celebre (e martellante) spot, quello che non metti più. Si pratica a livello digitale – sul sito o attraverso un’applicazione, per intenderci – e permette a chi ha troppo di vendere, a chi ha poco di acquistare. Molto spesso chi vende lo fa per rinnovare il guardaroba, lasciando spazio al nuovo. Ma, sotto sotto, c’è anche un messaggio ecologico. Perché buttare quando può forse piacere e servire ad un altro? Chi invece compra, cerca qualcosa d’occasione e molto spesso la trova a prezzi stracciatissimi. Ma come funziona? Semplice. Chi vende, carica sul sito le foto e stabilisce un prezzo. Trovato il potenziale acquirente – con il quale si può chattare per chiedere info sullo stato del prodotto, ad esempio – si spedisce e si riceve un credito, spendibile sullo stesso sito o convertibile in moneta sonante.
Vintage o seconda mano?
Spesso si cade nell’errore di considerare vintage ciò che è stato già usato, quindi di seconda mano. Ma mentre i prodotti di seconda mano possono risalire a qualsiasi periodo – giorni, mesi, anni – e con variabili che spaziano dalla qualità, al prezzo di partenza, alle condizioni di conservazione, il Vintage va a definire qualità e valore di un oggetto andato in produzione almeno vent’anni prima del periodo attuale. È interessante scoprire che il vocabolo vintage – di derivazione francese e riferibile non solo a vestiti ma a tutto quello che fa moda, come accessori, gioielli, oggetti di design di automobili, ecc… – si riferisce originariamente al settore vinicolo, con particolare riferimento al pregio assunto dall’invecchiamento del prodotto. Da questo concetto, se ne deduce per traslazione che anche gli oggetti del passato, come il buon vino, acquisiscono valore. Questi elementi assumono nel tempo quasi un fattore di culto, caratterizzandosi per l’esclusività della produzione, per la non riproducibilità o per l’essere inseriti in un periodo culturale e di costume ben definito.
Economiacircolare.com
Su economiacircolare.com vengono illustrate le modalità di raccolta degli indumenti usati, che si possono articolare nel sistema del riuso, del riciclo e dello smaltimento. In Italia il riutilizzo corrisponde circa al 68%, il riciclo al 29% e lo smaltimento al 3%. Ma è possibile dare seconda vita agli indumenti usati anche attraverso associazioni benefiche che si occupano di distribuirli ai bisognosi.
Ma che fine fanno i nostri vecchi abiti una volta raggiunti i cassonetti lungo le strade o quelli posti nei CRM? Una volta arrivati nell’area dedicata ad una prima selezione, si stabilisce cosa destinare al riuso e quindi a rimettere sul mercato e cosa invece far convogliare verso attività di riciclo. Una volta stabilita la modalità di riuso, si attua una seconda fase di selezione, nella quale gli indumenti vengono catalogati secondo un criterio di qualità. Prima del rilancio sul mercato, il prodotto di nuova vita viene igienizzato secondo gli standard definiti per legge.
Diversamente, sul versante degli indumenti usati non ritenuti idonei al riuso, si mette in moto un processo di riciclo che porterà a varie tipologie di trasformazione, come pezzame a uso industriale, nuovi tessuti, isolanti acustici e termici.
L’obiettivo generale è anche quello di sensibilizzare – facendo conoscere il fenomeno ed i relativi processi di trasformazione – non solo il singolo ma anche i grandi produttori, in un’ottica di economia circolare.
ELETTRODOMESTICO ROTTO? ORA TI AGGIUSTO IO! |
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Storico negozio di riparazioni di Trento nonché centro assistenza autorizzato (con sede anche a Rovereto), è un po’ il simbolo cittadino del riuso Aperta nell’ormai lontano 1979, l’attività della famiglia Longo – condotta dai soci Paolo e Mirella, affiancati dal personale tecnico e amministrativo (sono in 9) – rappresenta, oggi più che mai, una valida soluzione ecologica ed economica contro lo spreco. Nella sede di via Gocciadoro, Paolo ci racconta che spesso non si associa il termine riuso all’elettrodomestico; i prodotti si buttano perché esce la pubblicità di quello più nuovo! Nei CRM vediamo tanti prodotti che vengono gettati via perché la gente vuole disfarsene. Anche la pubblicità con un clic acquisto, con un clic vendo, certamente non incentiva il riuso. Secondo Paolo andrebbero avviate delle attività specifiche, in grado di sostenere il recupero. Manca cioè una progettualità di ampio respiro – a livello comunale e provinciale – sul recupero di prodotti che potrebbero tornare sul mercato con caratteristiche di sicurezza e funzionalità. Se già al CRM si potesse fare una prima selezione su quanto effettivamente da eliminare con quanto invece recuperabile, sarebbe un primo passo. Di positivo c’è che adesso esiste una fascia di clientela molto attenta all’ambiente; purtroppo però alle volte la convenienza ha la meglio sul recupero. Da dietro il bancone si valutano le possibilità di far funzionare di nuovo un elettrodomestico secondo criteri basati soprattutto sulla sicurezza: la priorità è che il cliente ritiri un prodotto riparato e sicuro in qualsiasi sua parte. E l’effetto pandemia? La gente è stata casa, ha utilizzato di più gli elettrodomestici (dall’impastatrice ai fornetti, fino alle macchine per fare il pane in casa) e su questo c’è stato un ritorno perché il prodotto, utilizzandolo, necessita prima o poi del ricambio. L’altro lato della medaglia è che molti clienti si sono abituati ad acquistare online, il che ha fatto mettere da parte quei prodotti che potevano essere ancora recuperati. Ma dopo i lockdown, quando la gente ha ricominciato ad uscire, è stato riscontrato un aumento di lavoro. Le cose più curiose che vengono portate in riparazione? Vari oggetti: dal passeggino al manico dell’ombrello, fino alla resistenza per il rettilario. Ma le cose più insolite arrivano dalle persone anziane; quelle affezionate alla moka piccolina, che ha il manico o il pomolino rotto oppure il vecchio frullatore. Quando ci portano questi prodotti, ci dispiace se per qualche motivo non possiamo intervenire (perché il ricambio non c’è più o per motivi di sicurezza). Ma noi non lo buttiamo; lo esponiamo in uno scaffale dedicato ai prodotti particolari, degni di essere conservati e ricordati. |