Vite e vino, una storia millenaria

L’autunno si avvicina, tempo di vendemmia, grandinate permettendo. La nostra regione si prepara a far rivivere l’antico rito della raccolta dell’uva ed è giusto ricordare la storia millenaria di questo frutto.

Un tempo il nome del vino Enantio rosso, chiamato anche Lambrusco a foglia frastagliata, era assai noto tra i vignaioli della bassa Vallagarina, soprattutto nelle campagne tra Ceraino e Ala. Già Plinio, nel I secolo d.C., ricordava quest’uva con il nome di oenanthium. È il vitigno che più si avvicina alla Vitis silvestris, la vita selvatica che si può trovare, sebbene ormai raramente, nei boschi. In Valsugana, nel 1497, compare il vin pavan. Lo si trova citato in un elenco riguardante le entrate di Castellalto, a monte di Telve di Sopra.

Carta viticola del Trentino, del 1901

Negli stessi elenchi, nel 1661, viene nominato il raspato cinese, un vitigno chiamato altresì pavana bianca – evidenti i legami con la terra padovana, soprattutto con i Colli Euganei dove si coltivava –, vernaccia bianca o vernaccia trentina, cenese, senese. Sulla dirupata costa orientale del Virgolo, ad oriente di Bolzano, a 460 m si trova il Kohlerhof, un maso documentato già nel 1100 d.C. come proprietà della parrocchia bolzanina. Nelle sue campagne si è sempre prodotto il Blaterle, il moscato bianco, a cui si aggiunge il Pfefferer (vitigno del moscato giallo).

Sull’altopiano di Tesimo, nel comune di Prissiano (documentato nell’845 d.C. come Prissianum), nella campagna che si distende ai piedi di Castel Katzenzungen, alla fine di settembre, solitamente il 29, si tiene la festa della vendemmia della vite più grande e quasi certamente più antica del mondo: il Versoaln, la quale produce un ottimo vino rosso imbottigliato in 1500 bottiglie.

Avio Castello con coltivazione di viti

Ma la lista di vini dai nomi esotici potrebbe continuare all’infinito. Noi oggi conosciamo nomi di vitigni come Lagrein, Marzemino, Teroldego, Cabernet, Gewurztraminer, Merlot, Schiava, ecc., ma un tempo in Trentino Alto Adige si coltivava una quantità incredibile di vitigni i cui nomi oggi sono rimasti testimoni muti negli archivi e nei documenti del passato. L’uva veniva coltivata in luoghi che a noi, oggi, potrebbero sembrare inospitali sia per il clima che per l’altitudine. Aldo Gorfer scrive, nel suo Le valli del Trentino. Trentino Orientale, che la produzione di uva nella zona comunale di Caldes, in Val di Sole, nel 1973 era di circa 245 quintali annui. La stessa Valsugana era intensamente coltivata a Pavana, il vino emblema della valle. La si trovava entrando in valle dal Forte di Civezzano fino alle Scalette di Primolano: delineava i contorni di ogni castello, di ogni maso, di ogni terrazzamento che s’inerpicava verso le foreste. Nelle terre non baciate dal sole, dove il clima offriva più mesi freddi che non quelli caldi, si coltivavano vitigni dai nomi rimasti esotici, come la Negrara, la Franconia, lo stesso Groppello oggi recuperato da alcuni caparbi coltivatori nel territorio di Revò in val di Non, il Weisser Hörtling, varietà utilizzata soprattutto per il consumo invernale: i piccoli acini, parzialmente essiccati, erano utilizzati per “insaporire i dolci”. Oppure il Blatterle, il Weissterlaner, il Furner, il Roter Hörtling e il Bozner Seidentraube. Alcuni di questi vini, come lo Zweigelt o il Furner, il Fraueler e il Blatterle, si possono ancora gustare in alcuni Buschenschank del Sudtirolo, i “masi del gusto”.

Antico carro per trasporto botti

C’era poi l’antico Grüner Veltliner, lo slavo Veltlinske Zelene, un moscato bianco diviso tra hrubà e Muscateller, del XVI secolo, proveniente dalle aree mitteleuropee e coltivato in Sudtirolo e Trentino soprattutto nelle valli laterali, oggi praticamente scomparso. Alcuni strenui coltivatori ne perpetuano il ricordo in alcuni masi arrampicati sulla scoscesa Val d’Isarco. Un tempo veniva altresì chiamato Moscato Verde – con questo nome lo ricorda W. A. Goethe nel 1884 – e la più antica testimonianza si riscontra in documenti risalenti ad un contratto sottoscritto l’11 dicembre 1584 tra la Camera di Corte viennese e un commerciante, per un’ordinazione di ben 8000 otri di vino per le truppe dislocate nelle fortezze di confine con l’impero Ottomano. Poi c’era la Negrara,della quale, nel Giornale Agrario dei Distretti Trentini e Roveretani (luglio 1840), si dice che è poco coltivata perché scarso è creduto il prodotto in confronto della Schiava nera; in ciò s’ingannano perché confondono le due qualità che abbiamo di una tal vite… , la Rossara – coltivata sul monte di Cavedine, nella valle dei Laghi –, la Vernazza, la Verd’albara, la Garganega ossia Molinara, ai bianchi della Romana, della Sòpurella e della Paolina. Il Franconia “Destrani” (= nostalgia, rimpianto, in dialetto trentino), era, assieme al Portoghese e al Sant Laurent, una delle varietà presenti per la sua rusticità e plasticità ambientale in quasi tutto l’Impero austro-ungarico.

Oggi un manipolo di coraggiosi coltivatori trentini e sudtirolesi sta riportando alla luce vini che furono famosi, cercando di restituire agli amanti del vino non solo una bevanda ma una vera e propria cultura secolare della nostra terra.

Dalla “situla”, la testimonianza

Quando nel 1828 Simone Nicolodi, intento a sbancare un appezzamento sul Doss Caslir, a Cembra, per gettare le fondamenta di un edificio, venne chiamato dalle urla dei cavatori che lavoravano poco distante in una grotticella, sicuramente non si aspettava di trovare colà un reperto d’impareggiabile valore. Non solo si era portato alla luce un prezioso secchio in bronzo, una sìtula, risalente all’inizio della Seconda Età del Ferro, appartenente alla cultura retica, bensì anche la testimonianza che qui in valle di Cembra, a quell’epoca, si coltivava la vite. Nella Cista di Sanzeno, rinvenuta nel cuore dell’Anaunia, valle da cui giunge una gran quantità di strumenti per la viticoltura, è raffigurato il rito del connubio sacro, immagine cultuale della fecondazione dei campi e dei vigneti. Ai celebranti del mistico accoppiamento viene offerto del vino, attinto dalla sìtula con il tradizionale attingitoio a forma di mestolo.

Inoltre, a testimonianza della vocazione vinicola della nostra regione, ci sono le tre roncole ascrivibili alla tipologia della falx vinitoria, strumento rusticale di ferro – da cui deriva l’attuale roncola – che sono state trovate in Valsugana, a Calceranica, Sella di Borgo e Torcegno. Ne è stata rinvenuta una anche a Isera, in Val Lagarina. La falx vinitoria veniva utilizzata per tagliare i velenosi sterpi, potare le viti, e la roncola veniva sempre portata appesa alla cinta dall’agricoltore.

Quando la vite piange inizia la primavera

Ancor più sorpreso però dovrebbe essere rimasto l’archeologo che, in val d’Isarco, a Stufles, Bressanone, riportò alla luce, tra i tanti cocci, anche una quantità notevole di viticci, databili a 4000 anni a.C., cosa che ha fatto pensare che il ritrovarsi attorno ad un vaso colmo di vino facesse parte sia di un momento di socializzazione che di una ritualità ben precisa, secoli prima dei simposi greci e di quelli romani. Diversi reperti archeologici del V secolo a.C., tra cui cesoie, mestoli, ecc., sono emersi in diversi siti del Sudtirolo, a dimostrazione che la cultura enologica aveva anche qui antiche radici. Tra i resti di diverse case retiche dell’età del ferro, l’archeologo Luigi Dal Ri, nel 1985, ritrovò diversi semi d’uva datati al 500 a.C. Di Vitis vinifera vennero trovate tracce a Nago; a Mezzocorona emersero parti lignee di vite e strutture riconducibili ad un torchio di età romana oltre che a vinaccioli. Nella terra del futuro Teroldego venne trovata un’anfora di tipo “Agorà Atene”, datata tra il I e il II secolo d.C., un recipiente con imboccatura stretta, collo basso e cilindrico, con anse piccole e ben delineate, proveniente probabilmente dalla cretese Knosso.

Caldonazzo, antichi utilizzo dei pali di castagno

Nelle nostre terre alpine la coltivazione della vite in modo “razionale” inizia a partire dall’età del Ferro, quando i sempre più frequenti contatti con Etruschi, Greci e Romani portano ad un’introduzione ex novo dei vitigni selezionati e di tecniche specializzate. Commerci agevolati dallo sviluppo della rete viaria, tra cui la Via Claudia Augusta, la quale, collegando i porti adriatici di Aquileia e di Quarto Altino con Augsburg, favorì un notevole andirivieni di commercianti che, oltre a nuove conoscenze, portarono lungo i villaggi del Trentino e del Sudtirolo nuove barbatelle per produrre varietà di uva diverse. La strada portò anche una cultura mitologica legata alla vite. Come ricorda Giuseppe Sebesta, ben sette lapidi dedicate in val di Non a Saturno, due a Trento, una a Villamontagna, testimoniano la presenza di quel dio chiamato dai Latini “visitator” o viticoltore.

Pelo di capra per tener lontani i caprioli dalle viti
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Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com