Volevamo fare gli astronauti. Oggi vogliamo solo lavorare meno

child is dressed in an astronaut costume

“Qual è il lavoro dei tuoi sogni?”, ci chiedevano quando eravamo bambini. Tutti e tutte ci sentivamo in dovere di rispondere alle aspettative degli adulti di allora, dicendo che avremmo voluto fare gli astronauti (se maschi) o le ballerine (se femmine), ma anche altri nobili e utilissimi lavori, come il medico, la musicista, la professoressa e l’allevatrice di Alpaca (quello che volevo fare io, perché lo avevo visto nel cartone dei Barbapapà). Nessuno si sarebbe mai sognato di dire: io non voglio lavorare! Oppure, ancora peggio: vorrei lavorare il meno possibile!

Chi come me è cresciuto negli anni Ottanta e Novanta ha conosciuto questa sorta di mantra del lavoro: “Tu sarai il tuo lavoro”. La felicità e la realizzazione per la nostra generazione – e per quelli un po’ più vecchi – sarebbe dovuta passare attraverso il tempo passato a lavorare. Il resto sarebbe stato fondamentalmente una sorta di “contorno” della vita. E per chi – sempre come me – appartiene al genere femminile, a maggior ragione il lavoro rappresentava la possibilità, abbastanza nuova, di raggiungere quella agognata parità di genere grazie alle lotte di chi ci aveva precedute. Le altre donne avevano combattuto, a noi stava solo il godimento del sacrificio altrui. Via, libere e sdoganate nel fantastico mondo del lavoro, che aspettava solo noi!

Potevamo studiare medicina, potevamo pensare di diventare “donne in carriera”. D’altronde giocavamo con le Barbie, ok, ma c’era anche Barbie dottoressa, così come Barbie rock star, a seconda dei gusti. Era tutta questione di scelta. Peccato che poi la realtà, come spesso avviene, si è rivelata diversa. Tra precariato decennale, tetti di cristallo, crisi economiche, scelta tra lavoro e famiglia, invecchiamento della popolazione e in ultimo la pandemia, lentamente il mito del lavoro è andato sgretolandosi davanti ai nostri occhi ingenui. Oggi ci credono solo i “boomer” e forse nemmeno più loro. 

Ma dai boomer in giù, nessuno prende più seriamente in considerazione questa favola. Chiedete alle persone che abbiano meno di 50 anni: il lavoro è il contorno; il benessere psicofisico, il tempo libero sono invece il piatto forte. 

Non mi si fraintenda: sono pochi quelli che possono permettersi di non lavorare, io stessa lavoro per vivere. Ma il lavoro sta tornando ad essere quello che è stato prima di quella distorta narrazione iniziata alla fine degli anni Sessanta: un mezzo, non un fine. Le aziende di oggi, se vogliono attrarre giovani, devono per forza tenere in mente questo aspetto. Nessun giovane si aspetta di trovare la felicità o la motivazione esistenziale nel lavoro. I tempi sono cambiati. Piuttosto, si aspettano un lavoro che sia sostenibile, che non li fagociti, che gli dia la possibilità di vivere una vita dignitosa, che non sia tirannico, che gli lasci tempo, che gli lasci vita. Nessuno si aspetta la “felicità”, ma di certo non si aspetta nemmeno le tipiche vestigia del passato: capi nervosi e autoritari, mancanza di empatia, il sistematico ignorare le esigenze delle persone: è un mondo in cui sempre meno persone sono disposte a vivere per lavorare, ma a lavorare per vivere.

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Pubblicato da Sara Hejazi

Cittadina italiana e iraniana, ha conseguito un dottorato di ricerca in Antropologia culturale ed Epistemologia della Complessità. Accademica, scrittrice, giornalista, collabora con molte università e fondazioni italiane oltre a scrivere su diverse testate. Ha pubblicato i saggi L’Iran s-velato. Antropologia dell’intreccio tra identità e velo (2008), L’altro islamico. Leggere l’Islam in Occidente (2009) e La fine del sesso? Relazioni e legami nell’era digitale (2017). Il suo ultimo libro è “Il senso della Specie” (Il Margine 2021).