Dove l’invisibile diventa visibile

Ci sono libri folgoranti che ti avvincono e ti gettano in profondi baratri mentali, elettrizzando le idee e dandogli nuova linfa, così come accadde a Paolo sulla via di Damasco. Tra questi sicuramente è da annoverare Il Monte Analogo del surrealista francese René Daumal, profondo studioso di sanscrito. La conoscenza di questo piccolo scrigno è avvenuta circa una trentina d’anni fa quando, al Trento Film Festival, viene proiettata una pellicola cecoslovacca riguardante una assurda e improbabile scalata su di un enorme cumulo di immondizia alto 25 chilometri, ovvero il Monte Olimpo sul pianeta Marte. I giovani registi, nella loro dissacrazione degli eroi classici della montagna, si rifacevano proprio al libro di Daumal, pubblicato postumo in Francia nel 1952 – lo scrittore e poeta era morto nel 1944 a soli 36 anni – e tradotto per i tipi di Adelphi.

Al di là della sottile ironia che pervade il libro, l’autore ci conduce in un viaggio altamente simbolico attraverso le terre in un mondo fuori dal regno delle quantità e dalla relazione causa-effetto.

Sappiamo che la vita non è geometrica, che è zampillo inafferrabile. Così come la chiesa romanica moltiplica con discrezione tutto ciò che può confondere un ordine troppo rigido, senza farlo diventare disordine, il libro di Daumal ci insegna a uscire da una logica euclidea per invitarci in un universo che ubbidisce alle leggi colorate di un caleidoscopio. È un universo intuitivo, un viaggio, una spedizione e una camminata alla ricerca del peradam, la pietra di Adamo: una ricerca al limite dell’impossibile, visto che la sua caratteristica è di celarsi agli umani. E per inciso, del nome peradam Roberto Calasso ha fatto il titolo di una collana dell’Adelphi.

Come si deduce da queste brevi righe, non è una semplice pietra. Daumal, da insostituibile studioso di sanscrito – la lingua magica dei Veda e di tutta la mitologia indù – le attribuisce la capacità di racchiudere la luce stessa che si nasconde tra le radici dell’uomo. Questa pietra limpida di estrema durezza, sferica e di grossezza variabile, un vero cristallo chiamato, invece, perdaram nella lingua di Porto-delle-Scimmie, si trova sui picchi più inaccessibili di una montagna protetta dagli “uomini-cavi”, gli stessi che proteggono la “rosa amara”, la conoscenza che svolazza come una farfalla o uno sciame di api, libera da ogni costrizione e apportatrice di ossigeno alle alte quote. Salire è un’impresa, così com’è un’impresa avvicinarsi passo dopo passo all’apparizione dentro di noi della luce dell’invisibile brahman: non tutti ci riescono. 

La montagna, legame tra terra e cielo, è il luogo iniziatico per eccellenza, là dove tutte le religioni del mondo segnano l’autentica esperienza spirituale e il contatto con il Divino. Mosè e il Sinai insegnano, ma anche Shiva e il Kailasa, Cristo e il Golgota, Dante e la Divina Commedia.

Sul peradam e sulla spedizione non abbiamo la soddisfazione di sapere come sia andata a finire: il romanzo si interrompe a metà strada. Probabilmente l’interruzione è un modo, analogico, per attenersi alla verità profonda dell’esistenza – come scrive Antonio Gnoli –, cosa che l’uomo occidentale aveva disimparato. Non è importante raggiungere la vetta ma il percorso che si fa. Non è importante la meta ma la via. E la via si crea percorrendola.

La spedizione avanza, indietreggia, si sposta, s’innalza per cadere in basso. Moto oscillatorio, ondulatorio, sussultorio: in questa terra non vigono le leggi euclidee, chi scende sale, chi scarta avanza rettilineo, la curva è una retta e la retta è una sfera, gli angoli sono antri smussati e le pietre, così come le farfalle, danzano il linguaggio delle cose sussurrate, delle cose non dette ma importanti, dei consigli silenziosi. Come dovrebbe fare l’arte, e forse non è un caso che Daumal abbia aderito al surrealismo.

Condividi l'articolo su: