L’irresistibile fascino di ciò che è doloroso

Lou Reed sulla copertina di The Bells, 1979 (ph. Michael Ochs Archives/Getty Images )

Ho visto recentemente Daria Bignardi a Rovereto presentare – con la mediazione del patron della meritoria libreria Arcadia Giorgio Gizzi – il suo ultimo lavoro, Libri che mi hanno rovinato la vita. Un memoir che mi ha confermato una volta di più quello che intuivo fin da ragazzo, e che in seguito ho ritrovato in tante opere, letterarie e non: s u certe persone il fascino di ciò che è doloroso, sofferente, insomma, negativo nel senso più ampio del termine, è fortissimo. “Le situazioni pericolose, tristi, luttuose mi facevano vibrare come se solo nel dramma la vita si mostrasse davvero: nuda, integra, commovente”, scrive Bignardi, che di suo per la verità sembra una persona spiritosa e affabile. Per aggiungere però che dopo un’esistenza spesa a leggere storie così finalmente è riuscita a superarlo, e non solo come lettrice, anche come persona. La cosa più interessante è in effetti proprio l’accostamento, fin da titolo, fra libri e vita. Chi nella lettura cerca solo uno svago è difficile possa capirlo fino in fondo. Dire “amo quel tipo di letture lì”, per certe persone, è come dire “sono portata per una vita così”. Siamo ben oltre la ricerca di un momento di commozione momentaneo, che scorre via assieme ai titoli di coda. Che cosa spinga verso un certo tipo di “inclinazione sentimentale” piuttosto che un’altra, di preciso non lo so. Ci sono persone che devono fronteggiare avversità anche gravi, e che pure manifestano un’indole positiva, costruttiva, anche “leggera”. Altre a cui la vita non ha riservato colpi particolarmente duri, e invece pendono verso la malinconia, oppure verso il rifiuto, la trasgressione, la rivolta, anche questi aspetti della difficoltà di vivere o di pensare “positivo”.

Gli esempi sono innumerevoli, nell’arte. Edgar Allan Poe, il grande autore americano, scrisse un piccolo racconto in proposito, The Imp of The Perverse, titolo difficile da tradurre in italiano. Imp viene reso di solito con “genio”, ma questo potrebbe trarre in inganno, qui per genio si intende “spiritello”, o “diavoletto”, cioè qualcosa da cui veniamo posseduti. Perverse è più semplice, rimanda a ciò che non è nel verso giusto, che è contrario, quindi, per estensione, sbagliato o malvagio. Uno spiritello malvagio che ci possiede. Molti anni dopo Poe, un altro americano, un cantante, stavolta, Lou Reed, ha ripreso quel racconto per fare i conti una volta per tutte con il proprio “genio della perversione”, ovvero con l’attrazione provata per tutto ciò che è negativo, o  pericoloso, attrazione che ha segnato anche gran parte della sua carriera artistica.

Ma volendo guardare al fascino del negativo in prospettiva storica, potremmo arrivare per lo meno fino al decadentismo, ai grandi padri (occidentali) di tutto questo, a poeti come Baudelaire, ad esempio. Per poi risalire, assieme a Bignardi, a Nietzsche (che di suo, non credo pensasse di rappresentare il polo negativo dell’esistenza), a Sologub, a Djuna Barnes. O, nel mio caso, a Sartre e a Camus, a Pavese non certo dei campioni di gioia di vivere, specie se letti a 13 anni.

Tornando invece a qualcosa di più recente, in fondo per tanto tempo anche Vasco Rossi, il trionfatore del concerto di Trento, ha cantato queste stesse inclinazioni, che lo hanno condotto a desiderare una vita spericolata, una vita fuori dagli schemi, una vita piena di guai. 

Il fascino del negativo è un tema che non cessa di affascinarmi, anche alla luce di ciò che veramente di tragico le cronache quotidiane ci rovesciano addosso. Sì, sto pensando alla guerra in Ucraina. Il grado di coinvolgimento che possiamo provare nei confronti di questi eventi varia da persona a persona: è evidente che una persona più sensibile di un’altra all’ingiustizia si sentirà anche emotivamente più coinvolta nelle tragedie del mondo. Ma io credo che il fascino del negativo si collochi in una dimensione diversa rispetto a quella storica o sociale. È qualcosa di più profondo e affonda le sue radici in una dimensione che forse solo gli psicologi possono esplorare. 

E voi, dovendo scegliere, diciamo, fra i due archetipi della letteratura, la tragedia e la commedia, cosa scegliete?

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