Cultura e razzismo. La prima è l’antidoto, il secondo la conseguenza

Innanzitutto un fatto emblematico. Nella recente carta dei luoghi in cui potrà essere costruito lo stoccaggio nazionale dei rifiuti radioattivi è stata inclusa la zona di Matera. La stessa città cioè con cui l’Italia si è pavoneggiata  agli occhi del mondo intero nel 2019, in quanto “capitale europea della cultura”. Verrebbe da pensare che finché quest’ultima si è fatta portatrice di un valore aggiunto è stata senz’altro la benvenuta, ora che i finanziamenti europei e l’afflusso di turisti stranieri sono terminati c’è solo da rimboccarsi le maniche e pensare alle “cose serie”. 

Mi fa venire in mente una situazione che mi capita spesso. Questa: qualcuno mi chiede che lavoro faccio e di fronte alla lapidaria risposta (“Beh, sai, io scrivo…”), ecco che, dopo essersi fatto una risatina d’ordinanza, l’interlocutore mi incalza domandandomi che lavoro io faccia “seriamente”.

Come oramai sappiamo bene, con l’attuale pandemia la cultura è ferma. Cinema, teatri, sale da musica, musei sono in attesa di riprendere le consuete programmazioni e riaprire le porte agli spettatori e ai visitatori. Più passano i mesi più la situazione si fa drammatica, anche per la cultura. I media danno risalto alle voci di protesta di negozianti, addetti del turismo e dell’ospitalità. Molto meno spazio viene dato ai lavoratori della cultura, quelli che operano “seriamente” proprio in quel settore. 

Ma il peggio di questa situazione è che la (speriamo) prossima riapertura non sarà la soluzione perché sta montando uno scetticismo molto pericoloso sull’effettiva utilità della presenza culturale nel nostro Paese. Come un sogno molesto, torna allora alla mente la famosa frase pronunciata nel 2010 dall’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti: “Non è che la gente la cultura se la mangia”. Embé.

C’è nella politica di ogni colore questa segreta convinzione: che i teatri, i cinema, le orchestre, i musei siano belle cose, edificanti, nobili, ma tutto sommato trascurabili, soprattutto se messe a confronto con altri settori economici. Chi ha già fatto l’esperienza di richiedere un finanziamento pubblico sa bene che tale richiesta può sortire diversi livelli di reattività ed empatia. Se il progetto presentato è di tipo culturale ecco che nell’Istituzione (comune, provincia, regione, ecc.) comincia a trasparire una certa insofferenza, quasi un fastidio. Come se nella natura dell’iniziativa fosse presente uno sconosciuto germe di inutilità. Il finanziamento magari arriva lo stesso, sia chiaro, ma con il contagocce, senza entusiasmo, spesso dietro richiesta di ricadute impossibili e a fronte di complicatissime rendicontazioni contabili, che spesso sembrano architettate proprio per far cadere nell’errore il richiedente.

La verità è che la cultura sta finendo in un ghetto, sì, in un polveroso sottoscala e la cosa non può non allarmarci. I consumi contemplati dalle politiche di crescita economica sono altri. I finanziamenti pubblici per la scuola e per l’intrattenimento culturale sono quelli più colpiti dalla crisi causata dal Covid-19. Quindi possiamo stare certi che la riapertura non risolverà affatto il problema, ma occorrerà un ragionamento a più largo raggio, partendo dal concetto stesso di cultura, lavorando sulla concezione che la gente ha della stessa. 

È risaputo come situazioni come quella pandemica spingano le comunità a chiudersi in se stesse. Accadde anche durante l’epidemia della Spagnola di inizio Novecento. L’interesse per la cultura e per l’educazione scema sempre più con il risultato che aumentano gli egoismi e le paure. I messaggi razzisti, discriminatori di genere e nazionalisti hanno sempre più presa sulle masse. Questo politici e amministratori lo sanno e molti tra loro pensano bene di approfittarne facendo del populismo e della demagogia le proprie armi di propaganda. Basta guardarsi attorno per rendersi conto di come il fenomeno sia dilagante. Pensiamo a quanto è accaduto con l’elettorato di Trump negli States, o ai sempiterni “barconi” di Salvini. Perfino all’interno di un medesimo territorio stanno riaffiorando distinguo che credevamo oramai defunti. Abbiamo ancora negli occhi alcuni terribili commenti legati alla morte di Agitu Ideo Gudeta o l’infelice frase di un consigliere comunale trentino che ha parlato di “sudici sudisti”. “La xenofobia – ha scritto Ryszard Kapuscinski – è la malattia di gente spaventata, afflitta da complessi di inferiorità e dal timore di vedersi riflessa nello specchio della cultura altrui.” 

Come andrà a finire, dunque? Negli anni che seguirono la Spagnola sappiamo bene cosa accadde. Tuttavia una delle differenze principali tra l’Italia del 2021 e la Germania del 1933 sta probabilmente nella cassa di risonanza rappresentata oggi dal web che accelera, enfatizza, provoca, controlla. Per fortuna uno degli scopi della cultura è quello di fare tesoro degli insegnamenti del passato. Una scuola che nessun virus né dittatore né razzista potranno mai condannare alla chiusura. Almeno così si spera.

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Pubblicato da Pino Loperfido

Autore di narrativa e di teatro. Già ideatore e Direttore Artistico del "Trentino Book Festival". I suoi ultimi libri sono: "La manutenzione dell’universo. Il curioso caso di Maria Domenica Lazzeri” (Athesia, 2020) e "Ciò che non si può dire. Il racconto del Cermis" (Edizioni del Faro, 2022). Nel 2022 ha vinto il premio giornalistico "Contro l'odio in rete", indetto da Corecom e Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige. Dirige la collana "Solenoide" per conto delle Edizioni del Faro.