Endometriosi. Storia di Flavia

Flavia ha 15 anni e da quasi 2 anni ha scoperto di essere affetta da endometriosi e adenomiosi. Una malattia cronica che l’ha portata ad affrontare ricoveri, visite in diversi centri medici, diagnosi sbagliate e il dolore, oltre a quello fisico, di non essere compresa. 

In occasione del progetto “COMPREND-ENDO” dedicato alle ragazze della terza, quarta e quinta superiore delle scuole di tutta Italia dalle volontarie dell’A.P.E. Associazione Progetto Endometriosi, associazione di pazienti nazionale, che organizzano momenti formativi per far conoscere la patologia e permettere alle giovani donne di aiutare le amiche e fare prevenzione, ha conosciuto l’associazione e ha deciso di raccontare la sua storia, per aiutare le ragazze che come lei devono fare i conti con la malattia.

Quando hai avuto i primi sintomi e cercavi la diagnosi, quali emozioni hai provato?

«Quando ho avuto i primi sintomi, mi ricordo che l’unica cosa che riuscivo a pensare era “perché?”. Non avevo idea da cosa fossero dati, non sapevo se fosse colpa mia, se magari ci fosse qualcosa di sbagliato nel mio stile di vita… Cercare la diagnosi è stato frustrante come nient’altro in vita mia. Io e mia madre, che mi ha sempre supportata e accompagnata ad ogni visita, abbiamo passato in ospedale una quantità di ore incredibile. Sono dovuta andare incontro a due ricoveri, parecchie diagnosi sbagliate, decine di medici e di visite in centri diversi prima di riuscire a capire quale fosse veramente il problema. Mi sentivo quasi inutile, non ascoltata, come se tutto il mondo non credesse a me e a ciò che dicevo di provare».

Quando il tuo dolore ha finalmente avuto un nome, invece, come ti sei sentita?

«Sicuramente mi sono sentita in parte sollevata dal fatto di sapere, finalmente, cos’era che mi provocava tutto quel dolore e quel disagio. Mi sono sentita anche sollevata perché finalmente qualcuno mi aveva dato la prova che non mi stavo inventando o immaginando niente, era tutto vero. Era lì. È stata proprio questa una parte difficile da accettare: il fatto di avere un problema. Spesso ero (e sono ancora) invidiosa, invidiosa degli altri, invidiosa di tutti coloro che riescono a vivere una vita normale. Ho avuto la diagnosi quando avevo quattordici anni, e credo che tutti possano immaginare come può essere scoprire di avere una malattia cronica a quest’età.

Ma, anche dopo la diagnosi, ho continuato a sentirmi non capita. Dai medici, si, ma anche dai miei stessi amici e coetanei. Ho iniziato a chiudermi in me stessa, a vergognarmi della mia malattia, a cercare di far finta che non avevo nulla di diverso da loro. Questo, ovviamente, non era vero. Ero, e sono ancora, molto diversa da loro. Sono diversa perché non riesco a stare seduta più di un’ora su una sedia senza avere un dolore lancinante al retto. Sono diversa perché se esco di casa anche solo un giorno, poi non riesco ad alzarmi dal letto per i successivi tre giorni. Sono diversa perché non posso neanche pensare di andare a mangiare fuori senza che il mio utero decida di farmi tornare a casa prima di aver finito la cena. Credo che ciò che la maggior parte delle persone (non affette da endometriosi o da altre malattie croniche) non capisce, è quanto sia difficile accettare la malattia, accettare di non poter essere in grado di fare ciò che gli altri fanno con facilità, accettare di doversi portare un peso del genere per tutta la vita».

Quando hai partecipato all’incontro dell’A.P.E. organizzato dalla scuola, cosa hai pensato? Cosa pensi che un’adolescente si aspetti da un’associazione di volontariato per endometriosi?

«Quando ho partecipato all’incontro dell’A.P.E., mi ricordo di essere stata felice. Ero felice del fatto che, grazie a quell’incontro, tante altre ragazze avrebbero avuto la possibilità di scoprire la loro endometriosi senza dover passare attraverso il lungo percorso di diagnosi al quale la maggior parte delle donne affette da endometriosi devono andare incontro. Credo che ciò che un’adolescente si aspetta da un’associazione di volontariato per endometriosi sia sostegno. Accettare di avere una malattia cronica, specialmente a quest’età, non è semplice. Non è stato semplice per me, e io dopotutto avevo comunque la mia famiglia che mi ha sempre supportata ed aiutata. Purtroppo, non tutte hanno questa fortuna, molte si ritrovano da sole (emotivamente e non), con una diagnosi tanto sudata in mano, senza avere la minima idea di cosa fare o a chi rivolgersi per aiuto. Certo, i ginecologi possono (e non sempre) dare un aiuto a livello strettamente medico, ma quando si parla di aiuto psicologico, credo un’associazione costituita da donne che hanno passato esattamente la stessa esperienza sia fondamentale».

Cosa vorresti che ginecologi e infermieri non dimenticassero? Cosa ti aspetti da loro?

«Credo che tutte noi ragazze e donne affette da endometriosi possiamo concordare sul fatto che il problema è principalmente uno: non c’è l’ascolto. Vorrei che i medici si ricordassero che l’endometriosi è una malattia estremamente soggettiva, e che se non si ascoltano e non si dà credito alle parole delle pazienti, la diagnosi sarà difficilissima da trovare, così come sarà difficile formulare qualunque altra terapia in grado di aiutare le pazienti ad affrontare tutti i sintomi che l’endometriosi comporta. Ogni donna è un essere umano con le sue emozioni, la sua storia e, ovviamente, la sua endometriosi. Non tutte le donne sono uguali, non tutti i corpi sono uguali, non tutte le endometriosi sono uguali. Anzi, sono tutte diverse. Ciò che desidero veramente, dal profondo del mio cuore, è che i medici si sforzino di capire come una quattordicenne potrebbe sentirsi appena uscita dalla sala operatoria, con davanti persone sconosciute, durante il periodo della pandemia, a 250km da casa. Capisco che non tutti riescono a capire cosa stanno passando gli altri, anzi, per la maggioranza può essere particolarmente difficile, ma ciò che chiedo è di almeno provare ad ascoltare. Un medico, quando si ritrova davanti una ragazza di quattordici anni che non riesce a vivere la sua vita come un’adolescente normale a causa del dolore, invece di sbatterla fuori dalla porta allo scadere dei quindici minuti concessi, dovrebbe fermarsi un attimo e ragionare sul fatto che in quei quindici minuti sta decidendo il futuro della sua vita. Non è poco. Perciò per favore ascoltate sempre, dedicate tempo alle persone, perché un minuto di ascolto in più può veramente fare la differenza. Vorrei ringraziare l’A.P.E. per l’attività che svolge, perché con il suo lavoro riesce ad aiutare tantissimo le pazienti, spesso anche di più rispetto ai medici. Ciò che fa la differenza è proprio il fatto che le donne dell’A.P.E. hanno anni di esperienza riguardo l’endometriosi (e non parlo di esperienza medica, ma di esperienza vissuta sulla propria pelle) e proprio per questo riescono a dare consigli pratici e tanto tanto tanto supporto psicologico che aiuta le ragazze ad affrontare la malattia. Grazie Apine!»

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Pubblicato da Adelina Zarlenga

Giornalista freelance, ufficio stampa e social media manager. Ha una laurea specialistica in Editoria, Media e Giornalismo ed è iscritta all'Ordine dei Giornalisti dal 2013. Dopo aver lavorato come cronista, collabora con Ella Studio – Ufficio Stampa e Digital Pr, specializzato nel settore dei viaggi, la cultura, il benessere e l’ecologia. È social media manager per diverse realtà nell’ambito del turismo, l’enogastronomia e l’ambiente. Scrive articoli e reportage giornalistici, è co-autrice del libro “La Rivoluzione delle Api. Come salvare l’alimentazione e l’agricoltura nel mondo” (Nutrimenti Edizioni). È anche apicoltrice.