La dolcissima tortura della nostalgia

Thomas Walch, “Nostalgia di casa”

C’è una tela che avrei voluto vedere appesa a un mio muro. Purtroppo devo accontentarmi di una cartolina ma ogni volta che la guardo mi si stringe il cuore, il sangue corre al contrario, le orecchie sibilano e l’ansia si fa spazio verso i confini del panico. L’opera è del tirolese Thomas Walch (Imst, 1867-1943), il titolo Heimweh, “Nostalgia di casa” (dal greco antico dolore del ritorno), e fa parte di un gruppo di lavori legati alla patria perduta, riferiti all’annessione del Sudtirolo all’Italia. L’immagine delle due giovani ragazze offre una scena straziante: appoggiate sul biancore dei sassi – sono i graniti della Kraxentrager (2999 metri) della catena della Tuxerhauptkamm, spezzata dal confine tracciato ignobilmente alla fine della prima guerra mondiale? – guardano a mezzogiorno, a quel meridione perso assieme al Trentino, i capelli raccolti in una treccia (simbolo dei legami familiari e di comunità), la bocca di una delle due leggermente socchiusa come volesse aspirare profondamente la fine aria delle altezze, lo sguardo che si perde all’orizzonte sulle dirupate pareti ghiacciate.

Di quest’opera l’artista ha dipinto anche una seconda versione, più tragica, Verlorene Heimat, dove una delle due ragazze è piegata all’indietro, con la testa tra le braccia, e la pensiamo piangente, lacerata dalla disperazione e dalla malinconia: qui siamo sull’orlo del precipizio dello smarrimento e del dilaniamento dell’Anima, siamo risucchiati dallo sconvolgente maelstrom. Da questo non c’è via d’uscita. Ma noi siamo rosei e speranzosi: preferiamo lo sguardo perso verso l’infinito del primo lavoro.

Thomas Walch, “Verlorene Heimat

La Nostalgia di casa: mai opera pittorica è riuscita a rendere meglio l’idea di quel desiderio acuto di tornare a vivere in un luogo che è stato di soggiorno abituale. Ma la nostalgia non è solo una questione di sangue e terra. 

Più che rimpianto la nostalgia è un’emozione che aiuta a non sprecare il piacere dei ricordi. La nostalgia – Marcel Proust ce lo ha insegnato – è vita, rivolta al futuro senza peraltro abdicare al proprio passato. Gli odori, i sapori, la gioia e le emozioni sono sentimenti da non dimenticare ma non vanno nemmeno utilizzati come roccaforte in cui rifugiarsi. La perdita dell’unità della propria terra che si legge negli occhi delle due ragazze non significa assolutamente perdita della propria storia. Anzi. È vero che la memoria va coltivata ma è anche vero che lo slancio utopico verso il futuro ci permette di scavalcare confini fisici e mentali, di andare oltre.

La tortura della nostalgia delle due ragazze può essere fatta uscire dal vicolo cieco, dalla notte oscura dell’Anima (le ali bruciate della farfalla notturna, la lacrima psichica che scende sulla rosea gota disperdendosi nell’aria rarefatta della montagna) aprendo un’ulteriore porta su un nuovo modo di vedere il passato. Ma è questa distanza che permette di utilizzare i ricordi come bagaglio per innovare continuamente l’apprendimento, scoprendo magari che sono infinite le nostalgie che ci trasciniamo dietro. Non ultima quella di Pothos, la personificazione del Desiderio amoroso, si dice figlio d’Afrodite. La nostalgia di un amore per una persona sottostà agli stessi meccanismi della nostalgia per la terra “perduta”: in entrambe c’è l’inquietudine, quel vagabondare alla ricerca di qualcosa, quell’impulso all’esplorazione, quell’anelito incoercibile che ha come meta un oggetto materiale – il Sudtirolo come per Ulisse era la sua Itaca – oppure il desiderio di un amore perduto, stupidamente dimenticato, romanticamente inarrivabile.

Soggiacere a Pothos non vuol dire solo far scorrere lacrime amare lungo il viso. I visi delle due ragazze non sono rigati da gocce di pianto: quelle sono rimaste intrappolate negli umidi occhi, schiave dello struggimento. Vuol dire guardare lontano, farsi afferrare da Pothos, essere spinti da lui ad andare oltre. Spazio e distanza diventano quindi l’immagine visiva che libera dallo struggimento, scartando la nostalgia che porta al desiderio di sonno e di morte.

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Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com