Uscire dall’antropocene

Tra gli strani comportamenti che caratterizzano l’animale uomo ce n’è uno particolarmente paradossale e contraddittorio: la capacità, da un lato, di immaginare e progettare il futuro – anche su larga scala, anche per vasti gruppi di persone, anche per l’intero pianeta – che si mescola, dall’altro lato, alla tendenza inesorabile a “vivere alla giornata”, pensare solo ed esclusivamente a sé stessi, praticare il si salvi chi può, fregarsene alla grande. 

Questo comportamento emerge nelle occasioni più svariate: per esempio nel momento in cui l’animale uomo corre al supermercato facendo razzia di pacchi di farina perché impaurito dalla guerra e pensando che, male che vada, potrà comunque rinchiudersi nel proprio appartamento e lievitare gli impasti in attesa di tempi migliori.

Ma poi ecco lo stesso identico esemplare prodigarsi e mettersi a disposizione degli altri con le sue conoscenze tecniche, i suoi saperi, le infinite buone intenzioni mosse da grandi ideali, sogni, utopie…

Come possiamo dunque definire Homo sapiens? Un avido altruista? Un egoista dal cuore nobile? Una simpatica canaglia?

Ma è soprattutto nel rapporto con il cambiamento climatico che questo atteggiamento contraddittorio emerge con forza: da una parte l’animale uomo conosce gli effetti del riscaldamento del pianeta. Ha creato commissioni, gruppi di ricerca interdisciplinari e transnazionali, ha investito fondi, per capirne di più. Dall’altro, sembra che – siccome il cambiamento coinvolgerà soprattutto i membri più giovani della specie o addirittura quelli non ancora nati – questo rischio non lo tocchi davvero.

È un po’ come il “memento mori” dei monaci benedettini, o come il giorno del giudizio nelle grandi religioni: il riscaldamento climatico non fa che ricordare all’animale uomo che prima o poi dovrà estinguersi. Si ok, ma di certo non oggi, dai!

E con questo atteggiamento del tutto bipolare homo sapiens si è riunito, negli ultimi trent’anni, in modi diversi, proprio col fine di trattare, mitigare, prevenire, risolvere, arginare l’inarrestabile riscaldamento del suo habitat. 

Nella maggior parte dei casi, a queste riunioni le grandi parole sono state accompagnate da azioni concrete molto piccole o praticamente nulle.

Così, ci racconta Gianfranco Bettin nel suo “I tempi stanno cambiando. Clima, scienza, politica” (Edizioni e/o, pag. 224, Euro 9,00), anche Greta Thunberg si è accorta che ai vari bla bla bla dei grandi summit non corrispondeva nessuna reale voglia di cambiare. Allo Youth4Climate di Milano, tenutosi il 28 Settembre 2021, la giovane accusava: “Finora abbiamo avuto trent’anni di bla bla bla […] Costruisci meglio bla bla bla. Economia verde bla bla bla. Zero missioni entro il 2050 bla bla bla. Parole che suonano alla grande ma non hanno portato all’azione.”

Si può essere una specie animale caratterizzata da una certa abbondanza di idee. Capace di immaginare, progettare e soprattutto di raccontare il migliore dei mondi possibili. 

Ma quando si tratta di agire, l’animale uomo risulta pigro, confuso, impaurito e paralizzato come qualsiasi altro mammifero di questo pianeta.

La sua più grande paura? Perdere ciò che ha.

L’Agenda Onu 2030 ha formulato le linee guida per uno sviluppo sostenibile per il pianeta. Si tratta di 17 obbiettivi imbevuti di idealismo, da raggiungere entro il 2030; tutti gli obiettivi integrano sviluppo e ambiente, connettendo le tre dimensioni – ambientale, sociale ed economica – in una visione integrata e universalista.

Ma, come dice ancora Gianfranco Bettin, il fatto che si tratti di obbiettivi molto generici come “Sconfiggere la povertà” o  “Garantire salute e benessere” o ancora “Lavoro dignitoso e crescita economica”, li rende certamente condivisibili da parte di chiunque, ma anche – e per lo stesso motivo – facilmente eludibili. In poche parole, sono talmente generici che nessuno ha idea di cosa significhino veramente.

Se ciò che conta è consumare di più e meglio, per l’animale uomo questi obbiettivi sono ancora grandi parole che suonano bene, sembrano giuste, ma sono prive di significato.

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 Così l’antropocene è definito come uno spazio – il nostro mondo – ma anche un tempo. Considerando anche solo  gli ultimi 200 anni, non vi è angolo del pianeta che non abbia un’impronta lasciata dalla specie Homo. Si tratta di una definizione convincente perché corrisponde alle idee antropocentriche raccontate negli ultimi secoli: il super uomo è in fondo anche colui che possiede e plasma la terra.

Riuscire a lasciare tracce in ogni angolo del mondo vuol dire averlo conquistato interamente e l’idea di conquista è un’altra delle grandi e paradossali idee che muovono il cuore umano.

Il problema è che i segni di questa brama sono soprattutto i rifiuti, ciò che abbiamo un tempo desiderato e che a un certo punto abbiamo gettato via.

I conquistadores sapiens sono insaziabili anche se arrivati per ultimi: se ci figuriamo la comparsa della vita sulla terra come fosse avvenuta in un solo giorno, l’animale uomo non sarebbe comparso che qualche secondo prima della mezzanotte. Questo è risaputo.

Dunque dall’antropocene bisogna uscire. Non solo dall’antropocene inteso come tempo in cui gli otto miliardi di esseri umani plasmano, forgiano, consumano e rovinano aria, oceani e mari, montagne, fiumi e laghi. Dall’antropocene bisogna uscirne dal punto di vista culturale, delle idee e delle azioni. L’antropocene è infatti una narrazione. Un mito in cui ancora una volta ci illudiamo di esserci solo noi, di poter superare i nostri limiti, di poter avere sempre di più. L’idea di antropocene è il punto massimo della celebrazione del potere che “la specie più intelligente” esercita sul regno vegetale, minerale e su tutte le altre forme di vita.

Ma poi, in fondo, davvero l’animale uomo è così speciale? 

“Non siamo più noi ad accendere il motore del mutamento, a dettare i ritmi del ballo”, conclude Bettin nel suo libro. Il pianeta ha reagito e adesso siamo noi a doverci adattare, ridimensionare. È giunta l’ora di riequilibrare quello strano paradosso, quella insolita abitudine a sognare in grande per poi agire in modo talmente piccolo, da farci sembrare quasi miseri. 

Il libro

Oggi nel mondo a ogni secondo che passa si bruciano 250 tonnellate di carbone, 180.000 litri di petrolio e 125.000 metri cubi di gas, che in atmosfera si trasformano in 1.100 tonnellate di CO2. In giro ci sono troppe molecole di CO2, soprattutto. Un atomo di carbonio e due atomi di ossigeno formano una molecola di diossido di carbonio, comunemente detta anidride carbonica, chimicamente CO2. Il carbonio, la base della vita sulla terra. L’ossigeno, che ci fa respirare, che rende possibile la nostra vita basata sul carbonio. L’eccesso di CO2, di questa molecola accumulata nell’atmosfera e prodotta soprattutto dalla combustione di carbone, petrolio e gas, rende più difficile, irrequieta, a volte incandescente, la vita sul pianeta. Abbiamo oggi una mole di dati impressionante e inequivocabile. Con un agile e necessario pamphlet ambientalista, Gianfranco Bettin ha scritto il più aggiornato “stato dell’arte” sulle cause, le prospettive e le soluzioni circa la fine della nostra era dell’antropocene.

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Pubblicato da Sara Hejazi

Cittadina italiana e iraniana, ha conseguito un dottorato di ricerca in Antropologia culturale ed Epistemologia della Complessità. Accademica, scrittrice, giornalista, collabora con molte università e fondazioni italiane oltre a scrivere su diverse testate. Ha pubblicato i saggi L’Iran s-velato. Antropologia dell’intreccio tra identità e velo (2008), L’altro islamico. Leggere l’Islam in Occidente (2009) e La fine del sesso? Relazioni e legami nell’era digitale (2017). Il suo ultimo libro è “Il senso della Specie” (Il Margine 2021).