Ci sono canzoni capaci di rendere poetica persino una realtà prosaica come un’area di servizio. Parlo di “Autogrill”, di Francesco Guccini. C’è questa ragazza dietro al bancone che mescola “birra chiara e Seven Up”. Lui, viaggiatore di passaggio, entra e la nota. È bella, ma non appariscente, “bionda senza averne l’aria”, emana una tristezza “come i fiori e l’erba di scarpata ferroviaria”, che è poetico ma non suona proprio come un complimento.
Guccini si concede anche un vero virtuosismo. Quando l’uomo mette un disco nel juke-box (siamo nel 1983), sa di stare mimando la scena di un film, “ma per non gettarle in faccia qualche inutile cliché, picchiettavo un indù in latta di una scatola di tè”. Fare rimare “cliché” con “tè”, consegnando all’ascoltatore un’immagine nitida, anzi, indimenticabile, non è da tutti. Ben fatto, maestro! Per la cronaca: come può finire una canzone così splendidamente malinconica? “Mi chiamò la strada bianca…presi il resto, e me ne andai”.