Non lasciamo il femminismo agli estremisti

Dopo la morte di Giulia Cecchettin, avvenuta in novembre, si è riaperto il dibattito sulla questione dei femminicidi, con successive celebrazioni e polemiche per le affermazioni della sorella della vittima (“tutti gli uomini devono chiedere scusa”). Questo omicidio, per una serie di ragioni, ha suscitato un clamore particolare, tanto che, passati dei mesi, i giornali riportano ancora notizie sui familiari della ragazza e sulle condizioni del condannato.

In questa sede più volte si è cercato di individuare i rischi di posizioni estremiste, non in nome di una generica moderazione, ma piuttosto nella convinzione che solo partendo da un approccio a freddo, sensato, si possano affrontare questioni tanto delicate.

In questo senso desta preoccupazione la spinta che è giunta dalle piazze italiane, come sempre fomentate da un senso di forte militanza, per una lotta serrata al “patriarcato”, con le eventuali derive in termini di slogan. In una società in cui il nemico non è più in carne ed ossa è forte nelle anime giovani il bisogno di schierarsi contro qualcosa, di sentirsi parte di una lotta. Forse, ma ci si spinge troppo in campi filosofici, è vivo proprio il bisogno di sentirsi in pericolo, di percepire una tensione avversa, per dare un senso a un’esistenza che altrimenti, per un certo esasperato consumismo e relativismo, sembra non averne alcuno. A questo punto, perché limitarsi a criticare un certo maschilismo, sicuramente ancora presente in parti della società italiana, o a proporre soluzioni per sradicare una violenza tuttora perpetuata da alcuni uomini? Molto meglio inventarsi il feticcio di un “patriarcato”, reificazione di un potere maschile che controlla ogni ambito della società. 

Sicuramente in questo spostamento linguistico nasce un nemico più facile da individuare, con un problema però non indifferente: il patriarcato, in Italia, oggi, non esiste più. Un potere tale esiste in alcune parti del mondo, particolarmente sottosviluppate e con caratteristiche comunque peculiari, diverse anche dal “nostro” vecchio patriarcato. 

Dichiarare una lotta contro un modello di potere inesistente comporta una serie di malintesi dal punto di vista comunicativo e, come sempre accade, una radicalizzazione del linguaggio. Come è stato fatto notare da molti, la frase di Elena Cecchettin (che nessuno qui accusa, poiché qualsiasi affermazione, dopo un dolore simile, è comprensibile), riflette una concezione per cui tutti gli uomini sono complici di una violenza in quanto parte consapevole di un sistema che tali violenze giustifica. Non è così. Il messaggio però è accattivante, e le piazze delle manifestazioni se ne nutrono volentieri. Anche in questo caso, come nella lotta per i diritti della comunità LGBTQIA+, si preferisce una violenza galvanizzante a una posizione rivolta alla comprensione dei problemi. Come in molti ambiti delle lotte sociali, dunque, si arriva a uno scontro rabbioso, muro contro muro, togliendo responsabilità all’individuo a favore di generalizzazioni (in questo caso, un intero sesso) e alimentando, per forza di cose, la parte estremista avversa, che radicalizzerà sempre di più le sue posizioni. Nessun innocente chieda scusa per cose che non ha fatto e di cui non è complice, ma tutti assieme si cerchi di affrontare un tema che, essendo complesso, richiede pazienza e profondità.

Condividi l'articolo su:
Avatar photo

Pubblicato da Alessandro Zanoner

Nato a Trento nel 1993, insegnante di italiano, latino e storia nelle scuole superiori. Suonatore di strada con umili tentativi da cantautore e scrittore. Mi piacciono la montagne e il Mar Tirreno; viaggio con una buona frequenza, soprattutto in centro Italia. Un pomeriggio a Roma una volta all'anno, minimo. Pavese, Moravia ed Hermann Hesse i miei autori preferiti in narrativa. Per la musica De Gregori, Vinicio Capossela, Lucio Battisti e Giovanni Lindo Ferretti.