Il volto proibito della Trinità

Chiesa di San Nicolao, Giornico, Canton Ticino

Sulla scia iconoclasta di Martin Lutero e sotto l’influenza calvinista, la città di Zurigo, nel 1524, abolisce dalle chiese immagini e reliquie. La spinta luterana alla lettura personale delle Scritture portò all’alfabetizzazione di massa i fedeli protestanti, al contrario di quanto accadeva nel mondo cattolico dove la lettura della Bibbia fu da sempre scoraggiata a favore del linguaggio delle immagini che adornano le chiese e parlano agli analfabeti.

Per impedire alla politica luterana di prendere piede nelle terre cattoliche – la guerra dei contadini faceva ancora tremare l’aristocrazia e i vescovi –, la Chiesa convoca un concilio dove affrontare i problemi dottrinali, quelli disciplinari e, non ultime, le incertezze riguardanti le immagini. Il concilio si tenne a Trento (e per qualche anno a Bologna), dal 1545 al 1563, e le sedute affollarono il presbiterio del duomo della città e del santuario mariano di Santa Maria. La risposta del concilio tridentino, in primis, è quella di allontanare streghe e stregoni dalle città e dai paesi della regione relegandoli nella selvaggia e allora appartata valle di Genova (gruppo dell’Adamello). Inoltre fa un vero e proprio repulisti dell’immaginario figurativo religioso, aumentando di pari passo la presenza iconografica nelle cappelle e nelle chiese. Tra i tanti editti ne esce uno, durante la nona sessione, riguardante i “decreti del purgatorio, de’ santi, delle immagini” che recita: “in nessuna chiesa o in altro luogo sia posta immagine insolita, se non approvata dal vescovo …”.

Questo per opporsi alla Riforma dimostrando il coraggio di azioni energiche, sia per perseguire una politica missionaria nelle nostre valli alpine e nelle pianure, dove il cristianesimo, nonostante i secoli trascorsi, non era mai penetrato del tutto e dove sopravviveva una fede folklorica dalle ascendenze pagane. Alla fine del concilio usciva una religione severa, che rifiutava presenze iconografiche ingombranti o apocrife (frutto della medioevale “Bibbia dei poveri”), negava i culti delle immagini miracolose e delle virtù taumaturgiche (o almeno tentava di negare), in nome della centralità di Cristo. L’introduzione della censura non colpì soltanto le grandi opere pittoriche e scultoree – ad esempio il Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina di Roma, con la copertura delle “oscenità” – ma interessò le chiese e gli artisti “periferici”, impedendo le invenzioni gratuite, controllando le fonti testamentarie, vietando le immagini di nudi così in voga nel rinascimento paganeggiante.

S. Giuliana a Vigo di Fassa, Trinità

Il risultato è l’abbandono da parte degli artisti di immagini che si aprivano sulla gioia e la felicità optando per una pittura di pentimenti e sacrifici, in cui prevale la testimonianza di una visione religiosa basata sul dolore e sulla mortificazione, filtrata attraverso il martirio dei santi. 

Alle tante proibizioni e censure sfuggirono però due tipologie di immagini, condannate durante il concilio ma che ancor oggi possiamo ammirare in alcune chiese delle nostre valli, retaggio di esperienze e di una religiosità ancora tutta medioevale: la Trinità tricefala e la Schutzmantelmadonna, ovvero la Madonna dal mantello protettivo, variante della Madonna detta della Misericordia o dell’Aiuto. La prima immagine è presente in due chiese del Trentino e nella cappella della dogana di Colma (affreschi oggi scomparsi a causa di un incendio), la seconda è assai ricorrente nelle chiese e nei santuari sudtirolesi e del centro Europa.

Ambedue le raffigurazioni furono contrastate dalla Chiesa già a partire dal XII secolo e poi proibite con il concilio di Trento per via di una sospetta contaminazione con il paganesimo. Le tre teste nate da un ceppo ligneo unico assomigliavano troppo agli idoli pagani primitivi che iniziavano ad affacciarsi al cospetto dei missionari in terre esotiche. E quella Madonna con le braccia che tengono allargato il suo mantello sotto cui trova rifugio e speranza l’intera umanità suddivisa in uomini e donne – i primi a destra e le seconde a sinistra, oppure gli uomini in primo piano e le donne in secondo piano – diventava il destinatario delle preghiere del popolo invece che svolgere il ruolo di intercessione presso il proprio figlio, il Cristo. Perfino i monaci cistercensi si erano messi sotto il suo mantello, come ci ricorda il frate Cesario di Heisterbach che aveva raccolto le parole della Madonna: “Li amo tanto, i miei cistercensi, che li covo sotto le mie braccia”. Se gli editti del concilio di Trento non bastarono, ci pensò papa Urbano VIII, nel 1628, a fa piazza pulita di tutte queste immagini condannandole irreparabilmente. Fortunatamente la lontananza e la solitudine delle cappelle alpestri salvaguardarono queste immagini, immagini a cui ancor oggi la devozione popolare è molto legata.

Libertà e…
Questa iconologia eterodossa, fatta di Schutzmantelmadonna, di Trinità tricefale e di molti altri esempi sparsi nelle chiese alpestri, nasce dal bisogno, dalle paure e dal desiderio dei fedeli di capire e essere salvati. Solo raffigurando la tricefalia un fedele poteva comprendere la compresenza di tre figure in una, non cogliendo invece il significato di termini come “consustanziali” e “ipòstasi”. Così come si desiderava una Madonna potente che aiutasse nei secoli in cui il dardo della peste mieteva vittime. Una sovranità e un’autonomia che facevano paura alla Chiesa, in contrasto con i Vangeli, tanto da costringere gli artisti, dopo il Concilio di Trento, ad affiancare il Bambino Gesù tenuto in braccio o, più raramente, il Cristo con la ferita al costato. Disturbava una Madonna raffigurata come un’antica Grande Madre, non mediatrice ma fautrice di miracoli e protezioni.
D’altronde non era stata proprio l’immagine della Madonna una delle cause che avevano condotto alla Riforma protestante?

Sopravvivenze artistiche

Su di un dosso della val di Cembra spicca la poco nota chiesa romanica di S. Leonardo. Al proprio interno, sulla parete settentrionale, troviamo la Trinità tricefala, o trifronte, costituita da un solo corpo e da una testa con tre facce, per indicare che in una sola sostanza si manifestano tre volti diversi. Sono affreschi databili alla fine del secolo XV, nati dalla mano di un pittore itinerante tardogotico. Ben più famosa è la Trinità presente nella chiesa di S. Giuliana a Vigo di Fassa (XVI secolo), dipinta per mano di un ignoto pittore tirolese. 

L’origine iconografica è da ricercare nella dea greca Ecate Trivia, Signora degli Inferi e dei defunti, Signora anche dei crocicchi. La Trinità interpretata come un Cristo trifronte va connessa anche con l’esistenza del culto di una divinità tricefala nell’antica tradizione celto-germanica. In questi affreschi si coniugano quindi antiche raffigurazioni devozionali, strizzando l’occhio alla dottrina di Gioacchino da Fiore sulle “Tre Età” successive del Padre (Antico Testamento), del Figlio (Vangelo) e dello Spirito Santo (discesa del Paraclito e avvento finale della Gerusalemme Celeste). Lo stesso Dante scrive, parlando di Satana, “O quanto parve a me gran meraviglia quando vidi tre facce alla sua testa! (Inferno, XXXIV, 37-38). Più preciso fu Tiziano Vecellio, nell’Allegoria della Prudenza: sotto le tre facce del vecchio, dell’uomo maturo e del giovane dipinse una testa di lupo (Anubi), un leone (il mitraico Aion) e una testa di cane (la via delle rinascite celesti), riportandoci nell’Egitto ellenistico. La Trinità tricefala fu condannata ripetutamente per tutte queste contaminazioni eterodosse, per noi – così come per i fedeli del tempo – così ricche di stimoli e di indicazioni per le vie della salvazione.

Val di Cembra, San Leonardo dove è dipinta la Trinità tricefala

Nella parete sud della chiesa di Terlano, sopra S. Nicolò che placa la tempesta, troviamo una splendida Madonna del Manto (circa 1405), un affresco votivo in cui quattro angeli reggono il panno sotto le cui ali si trova la folla delle donne a sinistra e degli uomini a destra, tra cui due vescovi, un sacerdote con la pianeta e un francescano con il saio marrone dell’ordine. Non c’è la presenza del Bambino – come ad esempio nella chiesa di S. Volfango a Moena (XV secolo) – ed è contro questa tipologia di Schutzmantelmadonna che si sono scagliate le ire censorie nel corso dei secoli. Non bastava che i personaggi fossero sempre rappresentati piccoli come bambini, quindi inferiori rispetto alla divinità: era l’assenza del Bambino Gesù che disturbava, era quel decantare il ritorno al grembo materno come prezioso riposante luogo della tranquillità che non veniva accettato. Bisognava rimarcare il fatto che la Madonna era la Madre di Gesù, era un tramite, una via per raggiungerlo e non un fine. Eppure tra la schiera di artisti che rappresentarono questo modello iconologico si annoverano sia Piero della Francesca (Sansepolcro) che Raffaello Sanzio (Perugia). Gli stessi cistercensi e domenicani se ne appropriarono nel corso dei secoli. A San Domenico la Madonna era apparsa in sogno e nel XVI secolo abbracciava tutti i membri della Compagnia di Gesù per dimostrare che era loro madre: “li covava al di sotto delle sue ali protettrici”.

Persino le confraternite laiche pretendevano di avere un loro luogo privilegiato tra le pieghe del mantello mariano. Un successo che aumentò quando sotto il mantello apparve tutta l’umanità: i poveri, le donne e gli storpi. Un’immagine questa che proveniva da molto lontano: il modello più antico si fa risalire ad alcune immagini della dea Iside, raffigurata con le grandi ali aperte a proteggere il dio Osiride.

Schutzmantelmadonna, Santuario Altotting, Baviera
Schutzmantelmadonna, Terlano
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Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com