L’impatto dei cambiamenti climatici è come un incubo ricorrente, appare e scompare dalla nostra idea di montagna, soprattutto quando, come alla fine di febbraio di quest’anno, dopo due mesi di calure mai registrate prima, sono inaspettatamente ricomparse abbondanti nevicate.
Di fatto per la maggior parte della montagna trentina l’inverno ha visto presenze da record, grazie alla clientela straniera e all’innevamento programmato.
E se oltretutto a metà inverno torna ad essere tutto bianco torna anche “la favola”, pare tutto normale e tutti a dire “Mah…non sarà che stiamo esagerando?”.
Poi le temperature risalgono, nelle ore più calde, soprattutto alle quote più alte e allora capisci che no, non ci stiamo sbagliando, è il grafico delle temperature a indicare la tendenza.
Se però la neve arriva in coda di stagione va da sé che stazioni invernali a quote relativamente basse non riescono più a garantire la possibilità di sciare da dicembre ad aprile, se non a fronte di ingenti investimenti pubblici in bacini per innevamento artificiale, sui quali, una volta realizzati, con sacrificio di ettari di bosco, gravano pesanti interrogativi anche di carattere idrogeologico, oltre che sui costi energetici per le società di gestione (e di riflesso sugli utenti) e sulle temperature necessarie per il loro funzionamento. Allo stato attuale il 90% delle aree sciistiche funzionano solo grazie all’innevamento artificiale, il Trentino-Alto Adige è la prima in Italia come numero di bacini artificiali realizzati, 60 in totale.
Ad oggi dall’industria dello sci dipende l’economia di intere vallate, ed è pur vero che ogni stazione è un discorso a sé, per la quota alla quale è collocata, per capacità di investimenti e tipologia dell’offerta sciistica, ma forse in alcune situazioni, guardando in prospettiva, qualche alternativa alla monocultura dello sci si potrebbe ipotizzare.
Sull’arco alpino qualche esperimento interessante, in termini di alternative alla costruzione di nuovi impianti di risalita, sta facendo capolino, mentre in Trentino alternative non se ne vedono e se per caso viene abbozzata un’idea, non viene minimamente tenuta in considerazione, nemmeno se a finanziarla è lo stesso privato, vedi proposta di abbandonare il collegamento sciistico San Martino Passo Rolle proposto sette anni fa dal patron de “La Sportiva“ Lorenzo Delladio, il quale prevedeva un rilancio dell’area con un progetto di riconversione green.
La visuale del futuro procede con lo stesso identico modello di sviluppo degli anni ‘80, vedi caso Panarotta, dove gli impianti sono rimasti chiusi per mancanza di neve per il secondo anno consecutivo, ma ancora si ipotizza un possibile bacino per l’innevamento artificiale, nonostante gli eventi di scialpinismo e con le ciaspole registrino comunque un ottimo riscontro di partecipazione.
Ma a generare interrogativi sul futuro turistico della montagna non è soltanto il clima. Alcune tendenze sulla visione turistica in generale creano una certa apprensione nei confronti della conservazione del patrimonio naturale, culturale e paesaggistico. Le perplessità riguardano un approccio alla montagna, a volte frutto di un appiattimento culturale ancora sottotraccia nell’opinione pubblica, seppellito da un marketing onnivoro e dalle istanze dei territori attratti dalla promessa di sempre maggiori flussi turistici.
Di esempi in questo senso ne abbiamo di molto recenti, quali l’inaugurazione del ponte tibetano di Mezzocorona, 125 metri dondolanti su due spalle di roccia sopra la Val della Villa, per un costo totale di 2,3 milioni di euro.
Per non parlare delle panchine “panoramiche” giganti installate in val di Ledro, Val di Non Groppello e ai 2000 metri di Pozza di Fassa Buffaure, dove la dicitura “panoramiche” ricorda vagamente (ma neppure troppo) la ruota panoramica dei luna park.
A quale scopo vengono posizionate, se non quello di attirare sempre più visitatori, all’interno di un contesto alpino già saturo, che avrebbe di per sé le caratteristiche intrinseche per farsi ammirare così com’è, in tutta la sua straordinaria suggestione paesaggistica.
Ed eccoci arrivati al punto: vogliamo davvero una montagna in technicolor, una montagna “luna park”, da consegnare ai posteri? Una montagna dove le vie ferrate artificiali, come la ferrata delle Aquile, realizzate con spirali in ferro, vengono installate proprio al cospetto di vie alpinistiche firmate dai vari Fabbro, Bianchi, Detassis, Pedrotti, Stenico, Gabrielli, Pisoni, Maestri, Baldessari, Cestari, Loss, Marchiodi, Bonvecchio, Destefani e numerosi altri grandi rocciatori trentini e non. Tracciati a volte di modesto impegno, a volte di grandi difficoltà, ma comunque degni di essere destinati all’alpinismo in quanto rappresentativi di un’epoca particolare dell’esplorazione alpina a bassa quota.
Qualcuno l’ha chiamata “la montagna addomesticata” qualcun altro “lunaparkizzata” a intendere un ambiente alpino che sembra perdere identità, assomigliando sempre di più ad altri contesti, cittadini, o balneari.
Mentre cerchiamo risposte ai nostri interrogativi attraverso tre voci che a vario titolo si occupano di montagna Anna Facchini, presidente della SAT, Annibale Salsa antropologo e profondo conoscitore delle Alpi e Lorenzo Delladio de “La Sportiva”, nel fondovalle la primavera allarga gli sguardi alla letizia delle fioriture, mentre sulle “terre alte” si pensa già alla stagione estiva con ansietà.
Nei rifugi alpini ormai la tendenza è a vagheggiare la sauna “panoramica” (n.d.r) con vista sulle Dolomiti di Brenta magari, o una doccia calda dopo aver percorso soltanto cinquecento metri di dislivello, quando la capacità idrica nei rifugi alpini sta diventando per quasi tutti i gestori l’incubo incombente di ogni apertura estiva.
Anna Facchini dopo sei anni alla guida della SAT, il sodalizio che con i suoi 35 rifugi può vantare la fetta più consistente di ricettività in quota, è netta: “Riduciamo gli impatti dei rifugi agendo sull’approvvigionamento idrico, sulla gestione delle acque e dei rifiuti e sull’efficienza energetica in un’ottica di salvaguardia ambientale, che non significa assecondare aspettative di ospitalità analoghe alle strutture alberghiere. Informare sulle problematiche poste dall’impatto dei cambiamenti climatici sulle strutture di alta montagna serve anche a sensibilizzare i visitatori per adottare comportamenti attenti al contesto ambientale. I nostri gestori hanno l’obbligo di offrire ospitalità sobria, attenta ai consumi, rispettosa dell’ambiente e attenta a soddisfare i bisogni di ristoro e accoglienza. In questa cornice si colloca il marchio “ecolution in quota” ideato per diffondere una gestione ambientale sostenibile ed efficiente partendo proprio dalle strutture di accoglienza in quota.
Sul futuro della frequentazione della montagna l’aspetto culturale è fondamentale, ma attenzione: siamo noi trentini, o in genere associazioni, a dover essere consapevoli che è il nostro comportamento, la nostra programmazione, il nostro vivere in, o per la montagna, a creare cultura. Se manca questa, non solo non siamo credibili, ma nemmeno possiamo pretendere rispetto e cultura di montagna.
Annibale Salsa restituisce l’immagine di una frequentazione “mordi e fuggi” delle nostre montagne “Nell’800 i primi frequentatori stazionavano per mesi nelle nostre vallate e sulle Dolomiti, si costruivano un’esperienza e una conoscenza dei luoghi, delle comunità, della vita in montagna. Oggi le vacanze di un mese non esistono più, un tempo prima di partire ci si documentava sulle destinazioni, sul clima, mentre oggi non ci sono più “viaggiatori”, ma solo “passeggeri”. I rifugi non sono più luoghi di partenza come per gli alpinisti degli anni 50 del ‘900, ma luoghi di approdo e questo ha cambiato l’approccio di chi va in montagna. Relativamente ai cambiamenti climatici e alla montagna invernale occorre iniziare a sperimentare, ma senza stravolgere un sistema ancora molto legato al comparto sciistico. L’importante è mantenere un’economia di montagna diversificata, turistica, silvo-pastorale, agricola, artigianale per non arrivare allo spopolamento che in certi contesti è già in atto.
Come abbiamo accennato nell’introduzione al nostro servizio Lorenzo Delladio fu l’unico antesignano, lungimirante imprenditore a proporre nel 2017 un’alternativa, il progetto conosciuto come “La Sportiva Outdoor Paradise” dove si prevedeva di praticare ogni tipo di sport: trail, running, ciaspole, trekking, nordic walking, bike, sleddog, arrampicata, sci alpinismo, attività di avvicinamento allo sport per i più piccoli, ma anche orienteering. Insomma, niente più impianti e piste ma 5/6 alloggi all’avanguardia che si sarebbero dovuti distinguere per sito, design e sostenibilità ambientale. Il tutto realizzato con capitali propri.
“Mi devo ancora riprendere – afferma l’imprenditore trentino – dalla delusione che provai allora, per il rifiuto della mia proposta. Oggi, se possibile, le cose sono anche peggiorate. E allora non ci si può sedere sugli allori dei numeri da record di quest’inverno, a lungo andare la carenza di neve si presenterà in tutta la sua gravità, per temperature alte, carenza di acqua, costi sempre più alti e noi dobbiamo farci trovare pronti, non si può intervenire a tappare i buchi di stagioni negative sempre con finanziamenti pubblici. L’industria dello sci è un’industria come un’altra, deve reggersi sulle proprie gambe, altrimenti bisogna ripensare ad un sistema che mantenga la redditività di chi vive e lavora in montagna evitando lo spopolamento. Vanno abbandonate le stagioni canoniche per far vivere la montagna tutto l’anno, certo senza smantellare un’economia che ancora funziona, ma innovazione e tradizione possono convivere. Questo è il tempo delle scelte e del coraggio di guardare avanti”.
Ma a quanto pare ancora regge e prospera il vecchio adagio “mai abbandonare la strada vecchia per la nuova”, ma forse occorre anche aggiungere “costi quel che costi”.