Per un giovane altoatesino degli anni Ottanta la figura di Alexander Langer (1946-1995) poteva costituire un punto di riferimento importante anche senza implicare una approfondita conoscenza personale, né, meno che mai, una devozione filologica ai suoi scritti, spesso pubblicati su testate non-maistream come Una città.
L’ho incontrato più volte, mentre iniziavo a fare il giornalista. Erano gli ultimi anni della sua parabola esistenziale. Ricordo un intervento nel corso di una conferenza stampa sulla guerra nei Balcani, nel quale lui, pacifista, spiegava perché avesse proposto, come parlamentare europeo, un intervento armato dell’Onu per porre fine all’assedio di Sarajevo. Ricordo quando mi illustrò il suo concetto di “pensare globalmente, agire localmente”, sottolineando che aveva ben presente la necessità dei cronisti di semplificare i concetti complessi, di comprimerli in slogan, e questo poteva essere, sì, in effetti, un buon slogan.
Ma la figura di Langer era presente nel mio personale Pantheon, come in quello di molti altri, già da molto tempo: almeno dall’occupazione “interetnica” dell’ex-Monopolio Tabacchi di Bolzano, nel 1980, un evento folgorante, per il 14enne che ero, e poi dalla nascita di Neue Linke/Nuova sinistra, quindi dei Verdi/Grünen. Certo, solo dopo la sua morte, quando è iniziata la pubblicazione dei volumi “antologici”, ho iniziato a conoscerlo più nel dettaglio. Il viaggiatore leggero, pubblicato da Sellerio nel 1996, ad esempio, mi fece una strana impressione: in effetti, le idee di Langer non sembravano più così radicali, anzi piuttosto ragionevoli. Avevano potuto spaventare tanto solo perché il mondo che gli ruotava attorno era incredibilmente limitato, pigro o cieco.
Poi, con il tempo, ho imparato a considerare con la dovuta attenzione anche le idee di chi non la vedeva esattamente come lui, magari sulla convivenza in Alto Adige Südtirol. Le idee di chi pensava, fra le altre cose, che avesse drammatizzato fin troppo la questione della dichiarazione di appartenenza al gruppo linguistico (prevista dal secondo Statuto di Autonomia, del 1972, per consentire l’applicazione della cosiddetta “Proporzionale”). Ho iniziato a capire persino chi diceva: non ero d’accordo con Langer, ma mi faceva piacere che uno come lui ci fosse.
Il punto, forse, oggi, al di là delle tante cose pubblicate – fra cui il recente Dialogo sull’Albania, che mette assieme gli scritti del sudtirolese e quelli di Alessandro Leogrande – è proprio questo: che una figura come quella di Langer ci voleva, e ci voleva a prescindere. Ci voleva innanzitutto perché in una terra che ha saputo schivare il conflitto etnico e lasciarsi alle spalle la stagione delle bombe, una terra dagli standard di qualità della vita molto elevati e dalle strepitose bellezze paesaggistiche, il rischio del conformismo è sempre dietro l’angolo. Quel tipo di conformismo che faceva dire al protagonista del Candido di Voltaire: viviamo nel migliore dei mondi possibili.
Ma attenzione: qui la risposta al conformismo in salsa tirolese non è stata indulgere in un generico “ribellismo”, e nemmeno coltivare fino alle estreme conseguenze una sensibilità acuta e aliena, cosa che potrebbe dirsi di altre persone dagli indubbi talenti, pensiamo ad un Norbert Kaser (per quanto la fine di Langer faccia inevitabilmente pensare).
Piuttosto, Langer ha messo a disposizione del suo tempo, dei suoi luoghi, delle persone che lo hanno conosciuto o che ha deciso di sua iniziativa di “abbracciare”, la lucidità del suo pensiero, e, sempre, la generosità delle sue azioni.
Lucidità di pensiero, innanzitutto: Langer, cresciuto in una famiglia laica e progressista, per metà ebreo, cattolico, già leader di Lotta Continua, amico di Messner e Sofri, è stato fra i primi in Italia a denunciare i limiti di un progresso tecnologico, di uno sviluppo insostenibile che minacciava al tempo stesso l’esistenza dell’uomo e gli equilibri dell’ambiente. Però ammonendo: la riconversione ecologica potrà funzionare solo se sarà socialmente desiderabile. Più lenti, più dolci, più profondi: che felici intuizioni, in questa formula, mutuata dal linguaggio olimpico. Langer è stato anche fra i primi a vedere il delinearsi di contrapposizioni nuove, etniche, si diceva allora, identitarie, diremmo oggi, in Sudtirolo come nei Balcani o altrove, in un mondo che nel globalizzarsi produceva per reazione chiusure, barriere. Laddove ci sarebbero voluti ponti, invece.
Ma non solo analisi, non solo pensiero. Anche il mettersi a disposizione. Trasparente, coraggioso, senza secondi o terzi fini: come quando, poco prima della fine, offrì alla città di Bolzano la sua candidatura a sindaco. Una candidatura che scottava, respinta perché non aveva dichiarato la propria appartenenza etnica al censimento.
Torno a quanto accennato all’inizio: cosa ha rappresentato, per me, ragazzo degli anni ‘80, una figura come quella di Langer? Ad esempio, un’idea di politica che metteva la visione “lunga” e l’immaginazione davanti al compromesso. Che sapeva guardare davvero oltre l’orizzonte di queste pur bellissime montagne. Che nobilitava persino il “tradimento”, se significava uscire dalle gabbie mentali, o etniche, senza però passare semplicemente dall’altra parte, ma conservando un’appartenenza (forse il suo insegnamento più difficile da mettere in pratica).
Credo che chi all’epoca subì il fascino della personalità di Alex Langer non sia più riuscito, in cuor suo, ad accontentarsi di niente di meno.
Appassionato al rapporto tra nord e sud del mondo
Di formazione cattolico-sociale, Alexander Langer fu esponente poi dell’organizzazione comunista Lotta Continua, ne diresse anche l’omonimo quotidiano. Tra i fondatori del partito dei Verdi italiani e uno dei leader del movimento verde europeo. Promotore di iniziative per la pace, la convivenza, i diritti umani, contro la manipolazione genetica e per la difesa dell’ambiente. Al centro della sua attenzione intellettuale la situazione dell’Alto Adige e in particolare il rapporto tra le diverse comunità linguistiche (noto fu il suo rifiuto, come germanofono altoatesino, di identificarsi politicamente con un’etnia); le problematiche internazionali, come il rapporto tra nord e sud del mondo, la situazione dei paesi dell’Europa dell’est e i problemi di convivenza nelle aree di crisi; gli interrogativi sul senso e la dinamica dell’integrazione europea; la lotta contro la guerra e in favore della conciliazione. Morì suicida nel 1995. Agli amici lasciò tre biglietti, di cui uno scritto in tedesco agli amici, che spiegava il gesto e citava anche una frase dal vangelo di Matteo. (“Venite a me, voi che siete stanchi ed oberati”).