Resistere in quota

AGNESE IOBSTRAIBIZER – MALGA CAGNON DE SORA – FOTO RMG

A settembre gli alpeggi venivano “scaricati”; la montagna diveniva allora deserta. Vi si avventuravano soltanto i cacciatori sino a che la neve non fosse scesa. Anche quelli, tuttavia, in ottobre non si sarebbero azzardati a trascorrere la notte nelle baite abbandonate: di quelle, infatti, avevano già preso possesso gli “scongiurati” … Il timore degli “scongiurati” era tale che solo alla vigilia della stagione dell’alpeggio si provvedeva a salire in alpe e a ripristinare non solo i danni di frane e valanghe ma anche, tramite i preti esorcisti, ogni presenza indesiderata.

In Trentino fino agli anni Sessanta c’erano 1056 malghe. Queste, nel corso dei secoli, hanno modellato il territorio alpino attraverso un’antropizzazione discreta e armonica con il territorio. L’alpe era un bene prezioso e si era disposti a sobbarcarsi decine e decine di chilometri di strade e sentieri per far sì che il proprio bestiame potesse nutrirsi durante l’estate. La qualità del pascolo era proporzionale alla qualità del latte e del formaggio. E non sempre la malga e il cosiddetto pascolo di casa si trovavano nella montagna sopra il proprio villaggio. Se c’era era proprio ridottissimo, riservato soltanto al “primo” pascolo degli animali nel momento dell’avvio alla transumanza.

La proprietà comunitaria, talvolta, era ubicata lontana, offrendo così la visione di un territorio a macchia di leopardo. Lo spostamento, la partenza e l’arrivo erano momenti di festa per la comunità. Oggi queste emozioni e sensazioni rivivono nelle varie desmontegate allestite nei centri turistici affinché gli ospiti comprendano e partecipino a quelli che un tempo erano riti collettivi, strappi festivi in una quotidianità monotona e vissuta sempre sul filo del rasoio con la fame, la malattia, l’emigrazione.

Il pascolo di Malga Juribello sotto le parete delle Pale di San Martino di Castrozza

Chi viaggia in montagna si sarà imbattuto nella dicitura di sopra e di sotto. La stratificazione verticale corrispondeva ad una logica ben precisa. A seconda dello stato dell’erba, le malghe, dove si poteva, erano suddivise in basse ed alte: l’avvicinarsi al cielo da parte di pastori, malgari, casari e del bestiame avveniva lentamente, senza affanno e stress. Anche perché bisognava aspettare che la neve se ne andasse definitivamente e che i contadini potessero effettuare il primo sfalcio del fieno. Quante norme inserite nelle Regole comunitarie tardomedioevali tese a mantenere il delicato equilibrio tra mondo agricolo e mondo dell’allevamento, a preservarne la quotidianità, a difendere gli interessi della propria comunità, a stabilire distanze e confronti con l’“esterno”, con i vicini e con chi, temporaneamente, si trovava a doversi inserire nei ritmi lavorativi.

I pascoli alpini si dividevano a loro volta tra quelli delle alpi da vacche, in quanto per lo più venivano riservati al pascolo del bestiame da latte, e quelli per il bestiame asciutto, che veniva avviato al pascolo più alto.

La dimora più elevata, dove si sostava a lungo, era la riproduzione della casa principale, con gli animali “da compagnia” (cani, gatti), nonché galline e un orticello che forniva l’insalata e i legumi freschi per la minestra. Il paesaggio della piccola montagna era molto umanizzato, con baite sparse sull’alpeggio, o raggruppate in piccoli villaggi, o disposte in fila lungo la via d’accesso. In alcuni casi quindi la trasformazione da malga ad agritur è la semplice prosecuzione di un’idea di montagna, di vita e di allevamento.

Malga Cornafessa, Monti Lessini

Raccontare delle malghe vuol dire descrivere le persone che ci hanno lavorato e che sono magari rimaste anonime per secoli, o che lo fanno tuttora, una storia fatta di umanità, di leggende, di pericoli, di ansie, di ingegno. E conoscere gli animali che sono i veri soggetti dell’alpeggio. Sono loro che hanno mantenuto la montagna viva, hanno rispettato e tramandato un equilibrio millenario che la modernità insidia giorno dopo giorno, con i suoi ritmi di consumo, di spettacolarizzazione, di urbanizzazione. La “corona” di alpeggi s’inscrive con armonica naturalezza nel paesaggio, così come la presenza dell’uomo si definisce come un esito “naturale” dell’evoluzione dei luoghi. La stessa tipologia costruttiva è un esempio di integrazione organica tra funzione e ambiente, sfruttando l’utilizzo di materiali presenti in loco, evidenziando sistemi di pulitura, di riparo, di difesa dalle intemperie, frutto dell’intelligenza secolare degli uomini di montagna. Una cultura che sempre più fatica a sopravvivere.

A malga Cislon si fa il formaggio

Al di là di ogni romanticismo

Non bisogna dimenticare che sono stati i pastori, in moltissime valli trentine e alpine, a coniare i nomi che sono arrivati fino a noi di laghi, alpeggi, torrenti, forse di alcune cime, sebbene quest’ultime, essendo territori aridi e non usufruibili per il pascolo ad eccetto delle capre, non fossero nemmeno considerate. Dagli antichi pastori e malgari le terre alte erano ritenute la sede degli dèi prima, di esseri mitologici come l’Om salvarech, nelle sue varie declinazioni valligiane, di esseri fantastici come le bregostane e i salvans poi, diventati con la cristianizzazione streghe, stregoni, orchi. Furono i pastori a trovare le corrispondenze tra il nome e un soprannaturale incombente, tra una magia che presiede al mondo di sopra e al mondo di sotto, tra l’ordine e il disordine, il paradiso e l’inferno.

Attraverso questi nomi, variati di poco nel corso dei secoli – pensiamo ai nomi degli strumenti lavorativi, quasi del tutto scomparsi con l’utilizzo dell’energia elettrica o con l’ingresso dei grandi caseifici collettivi –, affiorano miti, favole, riti e leggende, si muovono demoni, folletti e creature fantastiche. In una società contadina la religione era sempre presente, con croci, oratori, capitelli, eretti sulle vie di salita ai pascoli, cappelle costruite sull’alpeggio, dove il parroco celebrava ogni tanto la Messa e guidava le processioni. Cerimonia rituale era la festa votiva del 15 agosto, giorno dell’Assunzione, nonché la benedizione delle greggi e delle mandrie, o culto dei “piccoli santi” alpini, protettori del bestiame.

Non bisogna dimenticare che sono le genti di montagna, casari e malgari, tra cui molte donne, a mantenere curate con enorme fatica le cosiddette terre alte, gli alpeggi: gran parte della superficie agraria utilizzata in Trentino, 110.000 ettari circa, è costituita da prati e pascoli, a fronte di uno sfruttamento delle legnose agrarie di soltanto 22.000 ettari e di un coltivato a seminativo di poco più di 3.000 ettari.

Malga Valli Pasubio

Poco meno del 15% delle aziende rilevate, 2.389 unità, risulta svolgere attività di allevamento. Gli allevamenti bovini contano circa 45.000 capi di bestiame, gli ovini superano di poco i 27.000 capi, mentre i caprini contano poco più di 5.000 capi così come i suini, e gli equini, circa 3.000 capi. In questi ultimi anni diverse malghe sono state recuperate e ristrutturate, con un occhio di riguardo ad un processo di ridefinizione della funzione sociale della malga stessa, che facendo leva sul suo mai sopito valore simbolico e di identificazione, si traduce nella moltiplicazione spontanea di eventi quale le desmontegade, le albe in malga, le feste dell’alpe, itinerari gastronomici e sentieri del sapore. Sono tutte manifestazioni fortemente orientate, al di là della dimensione celebrativa, a finalità di aggregazione e coesione sociale e di stimolo all’azione comunitaria.

E mentre le malghe “alte” sono state ristrutturate quelle basse sono per lo più dimenticate. In ogni stazione esistono fabbricati adibiti alla conservazione e prima lavorazione del latte anche se, in genere, solamente al “piede dell’alpe” o, comunque, nella stazione principale, esisteva la casera per la stagionatura del formaggio. Per quanto la tecnica possa venire incontro e agevolare certe lavorazioni del casaro, lavorare all’alpeggio rimane, al di là di ogni romanticismo, un duro impegno quotidiano. Pensiamo soltanto, una volta fatte, al salare e girare le formagelle, mediamente due volte al giorno, calibrare i pesi che le tengano “pressate”, controllare temperatura e aereazione: una routine che inizia alle cinque/sei la mattina per poi ripetersi alla sera e, in mezzo, stanno la lavorazione del latte e la preparazione delle stesse, del burro, della ricotta, ecc. E poi c’è il lavoro del malgaro con tutto quello che ne consegue, non ultimo la gestione del pascolo stesso, la cura dell’erba, l’estirpazione di quella dannosa o infestante, ecc.

Frequentare gli alpeggi e le malghe, battendo i sentieri, rimane ancor oggi un atto d’aiuto economico e di valorizzazione individuale e sociale per chi lavora lassù, a metà strada tra la terra e il cielo, gustando i frutti della terra, quelle caciote o formagelle che si pongono ancora come strenua difesa contro la globalizzazione dei sapori e degli odori.

Viandanti a malga Lavacchione, Monti Lessini
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Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com