“La vita non è quella che hai vissuto, ma quella che ricordi; e come la ricordi per raccontarla”. È racchiuso in questa citazione a Gabriel García Márquez, il leitmotiv dell’intero percorso di scrittura di Roberto Corradini, nato a Trento nel 1949, al suo terzo romanzo, “Nati con la camicia”, edito Europa Edizioni. Per quanto infatti, come lui stesso chiarisce, «non si tratti di un libro autobiografico, quello che racconto in “Nati con la camicia” è il mio periodo, l’epoca in cui sono stato bambino e adolescente, un collage di pezzi della mia vita e di quella dei miei amici o conoscenti». Centro della vicenda sono Emiliano e Francesco, due amici nati nel ‘50 il cui legame di solidarietà e complicità somiglia a quello di due fratelli, forse quasi gemelli, ma le cui sorti, nella vita adulta, li conducono a separarsi. Sarà il successivo ritrovamento, nel 2015, a permettere loro di comprendere come l’amicizia sappia essere un legame potente, in grado di andare oltre le dimensioni del tempo e dello spazio, e rendendoli simbolo universale di un sentimento.
«Oltre a ciò, Emiliano e Francesco – chiarisce meglio l’autore – si fanno anche modello di un’epoca. Sono sicuro infatti che, se i miei coetanei italiani (a cui il libro è per altro dedicato n.d.r.) potranno riconoscersi nel loro vissuto, chi è più giovane e appartiene ad una generazione differente, li potrà utilizzare come una testimonianza storica». Al di là del legame d’amicizia, infatti, “Nati con la camicia” vuole essere ed è, su ispirazione de “Gli anni” di Annie Ernaux, un “romanzo sociologico”, un racconto di un periodo: nel suo stile scorrevole e dialogico, è nello sfondo degli eventi sociali, politici, sportivi e culturali, che il libro trova la sua forza. Un meticoloso lavoro di ricostruzione che, scherza Corradini, «sfido chiunque a poter cogliere in castagna. Se la mia memoria e il mio vissuto sono stati fondamentali per ricordare quegli anni, è grazie ad internet e alla ricerca di documenti, date e risultati sportivi che ho potuto essere così preciso».
Scrittore tardivo, approdato al suo sogno a seguito di anni di insegnamento più o meno tecnico, oggi Corradini può dire di aver raggiunto il traguardo di una finale al Premio Dostoevskji 2020, ma anche e soprattutto di aver saputo far tesoro del grande insegnamento hemingwayano di “scrivere ciò che si conosce”, facendosi voce di un’epoca, la sua, e di un privilegio: «Essere nati in Italia, in un momento di pace, è un caso – afferma infatti l’autore – ma un caso fortunato, Emiliano, Francesco, i miei coetanei ed io, dobbiamo essere consapevoli di far parte della prima generazione italiana che ha avuto modo di giocare e studiare a lungo, lontano dagli strascichi della guerra, e, al contempo, dell’ultima generazione che ha trovato lavoro subito e formato famiglia presto. Per noi la speranza correva; oggi, mi viene da dire – conclude – cammina con le grucce».