“Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso non è integrità e nemmeno idealismo e nemmeno determinazione o devozione. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte.” Sono parole di uno scrittore israeliano, Amos Oz, forse qualcuno se lo ricorderà a Trento nel 2010. La nostra cultura non è molto favorevole al compromesso. Generalmente a questa parola vengono associati valori negativi. Chi ricerca il compromesso è nella migliore delle ipotesi un “approfittatore”, nella peggiore uno che “cala le braghe” (metafora squisitamente maschile, anche se oggi i pantaloni li portano indifferentemente uomini e donne).
Siamo ancora impregnati di romanticismo. L’eroe per noi non è quello che va alla ricerca di un accordo, una via di mezzo. È Jacopo Ortis, è chi getta il suo cuore oltre l’ostacolo, e se perde magari si toglie la vita.
L’opinione che va per la maggiore è che si deve essere “senza se e senza ma”. Io, da modesto pacifista e ex-obbiettore di coscienza, sono sempre stato per i se e i ma, anche nei confronti dell’uso della forza, a dire il vero, perché mi è parso a volte che ad un certo misurato uso della forza si debba ricorrere, per prevenire tragedie peggiori. Due esempi, tratti dagli anni ‘90, decennio seguito al crollo del Muro di Berlino, che avrebbe dovuto inaugurare una stagione di pace e diffusione della democrazia? Sarajevo e il genocidio in Ruanda.
Poi succede che scoppiano le guerre. Vicino a noi. E, ancor più di prima, l’importanza del compromesso viene accantonata. Perché? Ma è chiaro: il compromesso parte dal presupposto che si deve essere almeno in parte disposti ad accogliere le ragioni dell’altro. L’altro, cioè l’invasore, il tagliagole, il bandito, Hitler. La maniera finale per chiudere la bocca a chi propone, nei conflitti, di percorrere la via della mediazione è non a caso: ti ricordi il 1938, Hitler? Ovviamente tutti ce lo ricordiamo e nessuno vuol essere accusato di dare spago a un nuovo Hitler.
L’altra ragione è che il compromesso lascia sempre un po’ tutti scontenti. Non consente di ottenere il 100%, magari neanche il 50%. Raramente è spendibile sul piano politico. Raramente fa guadagnare voti.
Così, adesso, se si prova ad articolare un ragionamento che introduca un minimo di complessità nelle vicende recenti dell’Ucraina e di Israele/Gaza, la reazione è: stai dalla parte di Putin; o della Nato; o di Netanyahu; o di Hamas. La cosa che impressiona è che questa reazione non la vediamo solo sui social media ma spesso anche sugli organi di informazione autorevoli. La pace, la ricerca della pace, diviene una questione trascurabile.
Che cosa serva per fare la pace credo sia una delle domande che mi sono posto più spesso nella vita. Può sembrare strano per un ragazzo cresciuto negli anni 80, ma solo se diamo retta agli stereotipi, che fanno di quel decennio il decennio di Drive In e del Riflusso (non gastrico, quello nel privato, dopo la sbornia di politica degli anni precedenti). Chi ha buona memoria ricorda altro di quegli anni: la corsa agli armamenti, ad esempio. L’inasprirsi della Guerra Fredda. I sovietici in Afghanistan. Gli american in Centro America.
Ma, di nuovo, che cosa serve, davvero, per fare la pace? Buone leggi e buoni politici, innanzitutto. Capacità di perdonare, pur senza dimenticare. E forse, prospettive di maggior benessere che facciano dimenticare i torti subiti, altrimenti non mi spiegherei come ha fatto il mondo, per lo meno quello occidentale, a ritrovare l’amicizia così in fretta con la Germania (e anche l’Italia) dopo la Seconda guerra mondiale.
T
utto questo è piuttosto evidente. Al fondo, però, mi sembra che tutte queste cose, la buona politica, le buone leggi, il perdono, e finanche il benessere, se è per tutti e non per pochi, presuppongano una caratteristica, una qualità, una piccola preziosa dote: l’inclinazione al compromesso.