Percorrono il corridoio con passo pesante, trascinando i trolley e pure le scarpe. Si sistemano nei banchi con il consueto fracasso, facendo stridere le sedie e ridendo a chi le fa stridere di più. Quelli che hanno guadagnato l’ultima fila sbeffeggiano quelli in cima, costretti per una settimana a stare sotto le grinfie dei professori. Qualcuno risponde a gesti, ma poi si rassegna e pensa già alle strategie per il prossimo posto da conquistare. E poi di fianco c’è quella carina, non è neanche andata così male.
Salvo qualche oscillazione generazionale, sono statisticamente così quelli dell’ultimo anno: eterni casinisti, parlatori cronici, lamentatori seriali, opinionisti pronti a dibattere del tutto e del niente. Ma anche inguaribili sognatori dalla lacrima facile, pessimisti convinti, realisti spiazzanti, filosofi di quartiere, innamorati in fase di cotta perenne e linguisti della parolaccia. E soprattutto dotati – oltre che dell’ingombrante fisicità degli anni adolescenziali – di due precise caratteristiche: un indomabile senso dell’umorismo (al quale è spesso impossibile resistere!) e la saccente propensione a fare domande.
Scriveva bene Frank McCourt – in quello che personalmente considero un capolavoro letterario sulla professione dell’insegnante, “Ehi, prof!” – che in ogni classe ce n’è uno. Accanto al secchione, all’intellettuale, al piantagrane, alla reginetta di bellezza, al cocco di mamma, all’innamorata persa, al cuorcontento, alla volontaria d’interrogazione, al fantasticatore sempre perso con lo sguardo fuori dalla finestra, all’impreparato proprio nel giorno dell’interrogazione, al giocoliere con le forbici in mano, all’incappucciato e a chissà quali altre tipologie di studente c’è sempre lui, il portavoce. È l’incaricato preposto a fare domande alla prof, per perdere tempo e magari far saltare la lezione. Agisce preferibilmente di lunedì, alla prima ora, ma non tralascia per principio neanche altre fasce orarie infrasettimanali.
Spalleggiato dalla classe – ti sembra quasi di sentirli quei “Daiiii, falle una domanda!” che serpeggiano tra le bancate – punta alle materie più spigolose, più tecniche, dense di regole e cariche di esercizi. Nell’ambito letterario, ad esempio, non sceglierà mai storia o letteratura, quanto piuttosto geografia e grammatica. E gli argomenti? Sempre generici naturalmente, in grado di spalancare scenari infiniti di conversazione.
E se l’insegnante novellino – di primo pelo per intenderci – appoggia il gesso lusingato e comincia amabilmente a dissertare, compiaciuto dall’interesse di quella classe che sembra quasi starlo pure ad ascoltare, le “vecchie scorze” alias i capisaldi da cattedra degli istituti scolastici non ci cascano quasi più. E dico quasi perché è facile anche per noi veterani dell’insegnamento cadere in tentazione, farsi condurre a parlare di quel fatto d’attualità che tanto ci interessa e che ci appassiona, lasciarsi trascinare da questa o quella problematica. Abboccando all’amo, consapevolmente o meno, ti illudi di alimentare l’humus di quel cittadino del futuro. E allora guardi con orgoglio il suo sguardo serio, mentre affronta argomenti di cui solitamente ai ragazzi non importa un fico secco.
Il portavoce, prima di lanciarsi in tematiche serie da telegiornale, sonda sempre il terreno con un neutrale “Come sta prof? Passato bene il fine settimana?” È una specie di test: se, lusingata da questa cortese formulazione, la prof in questione si appoggia alla cattedra e attacca a raccontare: è fatta! A quel punto un buon quarto d’ora si può dire andato e, date le premesse, si può ben sperare nel dopo. Ed è lì che si sfoderano, a seguire, quei macro argomenti che traghettano dritti all’ora del campanello: “Cosa ne pensa dell’evoluzione della pandemia?” “Secondo lei ci sarà un nuovo lockdown?” “Ma Greta Thunberg che fine ha fatto?” Spesso il portavoce punta invece sul personale, agganciandosi alle tematiche trattate in classe. Rispetto alla scelta della scuola superiore, non manca mai quella classica: “Ma lei che corso di studi ha fatto?” che naturalmente implica una risposta congrua, che ripercorra un intero curriculum (qualche anno fa, mi sono sentita rivolgere: “Ma lei prof, a che età ha dato il primo bacio?”) E allora o cedi, o rispolveri McCourt: “Non farti mettere i piedi in testa. Fagli vedere chi comanda, o sei morto. E non farti prendere per il culo. Dì piuttosto: tirate fuori i quaderni. Facciamo un po’ di ortografia.”