Tomas Franchini non c’è più. È morto domenica 2 giugno 2024 durante una traversata sulle Ande peruviane. Lo vogliamo ricordare ripubblicando una intervista che concesse a TM nel 2018, durante una spedizione proprio in quelle terre che gli sono state fatali. Ciao Tomas!
Si chiama “Los Picos 6500” la spedizione già leggendaria degli alpinisti trentini Tomas e Silvestro Franchini, Franco Nicolini, Michele Leonardi: scalare in concatenamento le più alte vette (ad ora 13 su 16) del Sudamerica. Un’esperienza da raccontare, per chi ama la montagna e l’avventura. Ne abbiamo parlato con due di loro – Tomas e Franco – e abbiamo scoperto un sacco di cose, anche molto divertenti…
Vediamo subito: da dove nasce l’idea di questo progetto?
L’idea è partita da un libro sulle montagne più alte del Sudamerica, che superano i 6000 metri; alcune sfiorano addirittura i 7000, come l’Aconcagua. Le Ande in sostanza, che partono dalla Patagonia e disegnano tutta l’America Meridionale attraverso Argentina, Cile, Bolivia e Perù. Il nostro progetto è stato subito chiaro: riuscire a concatenarle non in trenta giorni ma nel minor tempo possibile. Noi siamo guide alpine, due di noi hanno un rifugio quindi abbiamo dovuto condensare questo progetto in una parte precisa dell’anno: dal 20 febbraio al 20 aprile. A casa, a tavolino, abbiamo diviso il progetto in due parti: 13 delle 16 cime complessive si potevano fare in una sola volta. Il nostro obiettivo complessivo era cioè quello di partire in pieno inverno da sud per arrivare in Perù. La difficoltà di questo progetto era di trovare tutte le condizioni buone in tutte le montagne, quindi abbiamo diviso il percorso in due parti: dal sud Argentina fino alla Bolivia, una parte; nella seconda parte, che porteremo a termine in settembre, torneremo a fare le montagne del Perù, che presenta condizioni migliori in questo periodo piuttosto che ad aprile. Bisogna infatti considerare che in Perù le montagne sono molto nevose e molto pericolose.
Quale grosso problema è emerso subito dal punto di vista organizzativo?
Organizzativamente è sorta la problematica del permesso dell’Aconcagua; questo infatti non veniva rilasciato d’inverno quindi dovevamo partire con l’ultimo giorno di via libera per finire tutte le altre cime e riuscire ad arrivare nei tempi prestabiliti al Sajama in Bolivia.
Perché serviva il permesso per l’Aconcagua?
Per questioni di sicurezza. L’Aconcagua, che è la cima più alta del Sudamerica, è diventata una montagna commerciale: tantissima gente vuole andare a farla. Tecnicamente non è una montagna difficile, noi l’avremmo fatta anche d’inverno. Ma, come per l’Himalaya, adesso ci sono molte limitazioni. Siamo quindi entrati con l’ultima finestra di permesso, con partenza il 23 febbraio.
Cosa vuol dire “concatenamento”?
In gergo si chiama “concatenamento” lo scalare montagne in successione; si realizza senza pause o interruzioni: si scala, si scende, ci si trasferisce in macchina alla base dell’altra montagna e si ricomincia. Bisogna tener conto che anche i trasferimenti sono pesanti e faticosi; nel nostro caso, ci sono voluti anche 1000 km da una montagna all’altra.
È stata la prima volta per voi?
No, noi veniamo da altre esperienze di questo tipo. Il mondo della montagna [racconta Franco] ha bisogno di nuove idee. C’è chi pensa che ad andare in Himalaya e arrivare in cima all’Everest – magari con una bombola di ossigeno sulle spalle – diventi il più bravo alpinista del mondo. Tutt’altro! Ormai le spedizioni commerciali, nel bene o nel male, aiutano i turisti-alpinisti a salire le vette più famose, ma questo non è un alpinismo d’avanguardia, è una forma turistica di montagna. E Messner definisce bene questa situazione: dove finisce il turismo, comincia l’alpinismo.
Quali sono le nuove frontiere, sia dei giovani o di chi come voi viene già da esperienze di concatenamento?
O cime più basse in posti sperduti con difficoltà tecniche molto elevate, dove si realizza la tua forma di avventura, oppure il puntare sui concatenamenti. La nostra idea è stata molto nuova nel mondo della montagna. Molti hanno apprezzato proprio questo, il fatto che della gente abbia la mente aperta per trovare nuove frontiere di esplorazione, con obiettivi personali e fisici. Noi non andiamo in montagna per diventare alpinisti più forti: ci andiamo perché è la nostra passione, non per dimostrare qualcosa a qualcuno. Siccome qua abbiamo visto un po’ tutto (le nostre Dolomiti di Brenta, le Alpi) allora abbiamo iniziato a cercare un po’ fuori. L’altra prospettiva, quella appunto commerciale, consiste nel caricarsi la bombola di ossigeno e andare. Io [Franco] ho fatto 4 Ottomila e la bombola non so neanche cosa sia. Secondo noi non è giusto. La bombola è esattamente il doping visibile e conclamato dell’alpinista.
Com’è andata questa spedizione? Siete stati soddisfatti?
Abbiamo fatto queste cime anche in meno tempo di quanto pensavamo, abbiamo visto posti e paesaggi che alla fine come alpinisti non avremmo mai visto, ad esempio tanti vulcani, immense distese. Queste cime in realtà non presentano difficoltà alpinistiche, basta camminare. Però non è come andare da qui fino in cima al Bondone: metti 4 volte tanto, quindi un Bondone sopra l’altro, tutto in una volta. Per poi ricominciare. In quota poi, tutto diventa più grande e più difficile. Tutti noi all’Aconcagua – noi che, come ripeto, abbiamo esperienze di scalate molto più difficili – vedevamo il Sajama (che era l’ultima in programma) molto lontana. Il fatto è che qualsiasi cosa ti può ostacolare: basta una dissenteria come si deve, tanto per fare un esempio. In quota è tutto diverso e tutto più difficile, il corpo reagisce in maniera diversa. Non è stato facile stare in forma fisica per tutte le montagne. Anche la logistica – cioè i trasporti da una montagna all’altra – non è stata semplice. Abbiamo dovuto fare molte scelte. Ci accompagnavano dei nostri amici argentini (Marco Calamaro, Guillermo Almaraz, Roly Linzing) che ci hanno aiutato ed hanno organizzato gli spostamenti: guidavano loro. Conoscevano bene la geografia. E va detto che non è mica facile muoversi lì: loro naturalmente avevano il GPS e le tracce vecchie fatte da loro negli anni passati. Noi avremmo avuto delle difficoltà a organizzarci in tutto: anche perché abbiamo avuto un anno per organizzare tutta ‘sta storia. Sembra tanto, ma far combinare i nostri ritmi a quelli argentini non è così semplice. Poi ognuno ha i suoi obiettivi: io non sono mai partito per fare il tempo, per metterci di meno. Il tempo però diventa una priorità in quanto bisogna tener conto del tempo meteorologico. Tu guardi le previsioni e vedi che il tempo buono dura due giorni… allora bisogna approfittarne! Tanto per fare un esempio, a sud il problema è il vento e tu sai che se supera i 100 all’ora, in cima a una montagna o non ci arrivi, o triboli da bestia! Allora vedevamo di far combaciare i nostri arrivi alle montagne col tempo buono. A volte bisognava correre… quasi sempre abbiamo dovuto correre! Ma siamo stati anche fortunati.
Momenti difficili?
Sul campo forse no, sulle scelte forse sì, come decidere se andare da una parte o dall’altra. Ma devi capire che in una storia così, non c’è un momento più difficile degli altri; è una costante. E’ come fare un muro lungo 100 metri: i primi venti li fai entusiasta, vai, tiri, poi un po’ meno, a metà cominci a dire “chi me lo fa fare”, a tre quarti dici “che coi….!” E diventa una tribolazione finire. La stanchezza prevale, cominci ad essere stufo. Se quella cima [il Mercedario] ci fosse capitata alla penultima tappa, non so se saremmo andati in cima, avremmo dovuto riprovare. Questo perché la stanchezza generale prevale.
Quest’esperienza è stata la prima per questa squadra?
Sì, ed anche questa è stata una bella vittoria: stare due mesi e passa insieme, non è facile. Ognuno di noi è diverso, ma siamo riusciti ad andare d’accordo. E questo aspetto non è così facile e scontato: la maggior parte dei team nelle spedizioni alla fine litiga. Dall’inizio alla fine è tutto un prendere decisioni e lì uno la vede in una maniera, l’altro in un’altra ed è un attimo innescare una discussione. Noi siamo sempre andati d’accordo, con un po’ di sopportabilità ce la siamo sempre cavata. Ad esempio, sempre sul Mercedario, avevamo visto dei 100 all’ora di vento: io [Franco] avevo detto: “Lo saltiamo e andiamo alla prossima”. Questo voleva dire fare 500 km in su per poi farli indietro, sperando nel tempo. Una mattina a colazione abbiamo messo giù una discussione e abbiamo tirato le somme di quelli che erano i pro e i contro di questa cosa. Alla fine abbiamo detto: ”Bon, andiamo e rischiamo, magari le previsioni non sono così male”. La decisione era stata presa, ma in quattro. Ed è stata quella giusta: il vento c’era, ma la salita era fattibile; abbiamo fatto un bivacco non proprio bello (abbiamo rotto una tenda quella volta, tanto per dirti) però siamo andati su faticando un po’, ma bene. Alla fine nelle scelte c’è sempre la componente fortuna, come in montagna così come nella vita e in tutte le cose. Però, come si capisce, è un attimo innescare malumori.
Attrezzatura? Come eravate equipaggiati?
Regolare dotazione alpinistica e… costume da bagno!
State scherzando…?!
No! Sono zone vulcaniche e ci sono tante fonti di acqua calda e quindi a valle ci sono centri termali; ci siamo presi alcune serate di relax! Per le scalate, zaino con tenda grande da campo base, poi tende oltre il campo base, perché spesso la meta era talmente lontana che non ci arrivavi in una giornata. Già quando partivamo dal campo base facevamo dislivelli molto importanti: calcola che per fare una cima di quelle un normale scalatore ci impiega dai dieci giorni in su; noi in un paio di giorni andavamo su e tornavamo giù. Bisogna tener presente che bisognerebbe anche acclimatarsi: c’è una tabella di acclimatamento da seguire. Fisiologica, è stabilita dalla medicina, devi andare per gradi. Noi l’abbiamo stravolta: siamo partiti da casa il 20 di febbraio e il 26 eravamo già in cima. Poi senti il tuo corpo cosa ti dice.
Episodio divertente?
Ah, sì! L’Aconcagua, come dicevamo, è una montagna commerciale, tenuta molto d’occhio dagli argentini, che sono molto bravi per quello. All’inizio, nel parco, prima della scalata, ti danno un sacchetto e tu devi farci dentro i tuoi bisogni; alla fine della permanenza sui campi alti devi riportaglielo giù pieno! Se è vuoto, ti danno la multa! Fatta la cima, siamo scesi e il nostro compagno Michele è arrivato giù e si è ricordato: “Madonna, ho desmentegà su el sachet della merda!”
Non ce l’aveva più… gli avrebbero dato una bella multa. Noi ci appoggiavamo ad un’agenzia che ci organizzava il trasporto (non c’erano in quella circostanza i nostri amici argentini), come equipaggiamento con i muli e mangiare al campo base. Allora abbiamo chiesto a loro come potevamo fare… loro avevano lì un po’ di cose loro… insomma hanno raccattato in giro un po’ di roba e abbiamo consegnato! Tutto a posto!
Come fate ad avere l’energia per scalare? Cosa si mangia in campo base?
Si mangia poco: in alta quota le sensazioni sono mal di testa e inappetenza; certo se non si mangia non si ha energia. M siamo dimagriti tutti.
Di quanto?
Cosa ti interessa! Scherza Tomas. A parte gli scherzi, in quota si rischia di calare parecchio e questo è un danno. Ecco perché, ritornando alla domanda di prima, non c’è un solo momento difficile: è tutto un momento difficile perché tutto, dopo un po’, comincia a diventare faticoso. Poi ti abitui. Anche alla vita d’avventura. A parte l’Aconcagua, a fare le altre montagne non abbiamo mai incontrato nessuno, bellissimo. Tornando al discorso del mangiare, al campo base mangi in maniera tradizionale: pasta, riso ecc… quando fai i campi alti invece si preferisce cibo liofilizzato, disidratato, leggero da portare su.
Quali sono i vostri sponsor? Come finanziate le vostre imprese?
I nostri sono sponsor tecnici, cioè forniscono l’attrezzatura, non danno soldi. Questi sono: La Sportiva, Scarpa, Montura, Ferrino, Lebel, Blitz, Salice, Blue Ice, Camp. Forse ci daranno una mano le istituzioni, intanto noi ci siamo pagati tutto. Vogliamo ringraziare le Cantine Ferrari che ci ha fatto un bel brindisi di rientro e il birrificio della val Rendena. Certo i costi sono stati elevati… Noi al momento non siamo alpinisti professionisti, tre di noi sono guide alpine. Per essere professionista devi pubblicizzare molto. E questa è stata l’unica spedizione che abbiamo pubblicizzato tanto. I professionisti sono obbligati a mettere tot numero di post, tot numero foto sui social. Per la visibilità.
Obiettivi futuri?
Io e mio fratello [Tomas e Silvestro] torneremo a settembre in Perù per finire il concatenamento; probabilmente il Franco non viene perché il suo rifugio chiude il venti (ma sappiamo che farà di tutto per organizzarsi e partire…); e settembre è già quasi tardi, perché le migliori condizioni sarebbero luglio e agosto. Obiettivo della vita è pagare il mio mutuo, andare in montagna e viaggiare. Come idea, conoscere la montagna inesplorata, zone inesplorate, ancora da scoprire, gente e culture diverse; io sono stato in Cina a scalare e lì non c’era sentiero, non c’era niente. Intorno a noi, tutto senza nome, senza mappa. Avventura, esplorazione, trovare qualcosa di nuovo. È questo il bello della montagna.