Uscire dallo spazio sensibile

Henry Corbin (Parigi, 1903-1978). Figura poliedrica dell’orientalismo francese, la sua opera si caratterizza per un’acuta interpretazione di testi in lingua araba e persiana della filosofia islamica. Egli stesso ha sempre rifiutato di definirsi un islamologo, preferendo descrivere il suo lavoro come quello di un filosofo che lavora su opere di altri filosofi. 

Ho sempre posticipato di scrivere di questo autore: quando ci si trova al cospetto di una montagna che supera gli 8000 metri allora il passo felpato è un obbligo, la timidezza esplode e il tremore nello scegliere le parole per descrivere libro-persona è costante. L’abisso e la vetta assieme, sentieri che si inerpicano attraverso i cieli fino a trovare il regno di Simurgh, l’uccello che vive sull’albero dei semi, l’Albero Tuba, da cui erano generate le sementi di tutte le piante selvatiche.

Parliamo di Henry Corbin, colui che ci ha disoccultato e svelato – dischiudendo appena, l’apertura totale avrebbe comportato una luce abbagliante che i nostri occhi e la nostra mente non avrebbero retto – le infinite porte di ciò che è nascosto e ci ha concesso di percepirne le risonanze, gli echi dei molteplici mondi dell’islam iranico, dallo shi’ismo duodecimano agli ismaeliti alla pratica del sufi. I suoi innumerevoli testi sono delle pietre miliari, testimoni “contro il proprio tempo”, testimoni di un mondo altro. Le righe che si succedono hanno una capacità visionaria interiore di ricostruzione di altre realtà che non hanno paragone negli studi del Novecento. Soprattutto il rimarcare, pagina dopo pagina, un leit motiv costante assunto a paradigma: il ridurre la storia a dotta cronologia o la realtà a puro dato empirico, razionale e matematizzabile equivale a rendere nullo ogni valore trascendente e metafisico. Questo vale per ogni religione, ogni filosofia, ogni modo di essere in questo mondo. Basterebbe leggere Tempo ciclico e gnosi ismailita (Edizioni Mimesis, come la maggior parte delle sue opere) per entrare in un mondo con gli “occhi di fuoco di Ezechiele” e confidare in una conoscenza che rigeneri continuamente il tempo spezzandone il calcolo e legando il tempo alla Persona-archetipo (estremo connubio tra ismailismo e mazdeismo zoroastriano per chi ama gettarsi nel calore della gnosi).

Ma c’è un libro in particolare che può essere “utile” per capire come funziona l’immaginazione attiva: Corpo spirituale e Terra celeste (Edizioni Adelphi, 1986). Con questo testo ricostruisce una mappa dell’Immaginale, delegando all’organo percettivo dell’immaginazione attiva – lo stesso esaltato dai pittori visionari europei, a partire da Füssli e William Blake fino ai situazionisti – la strada per comprendere e seguire gli accadimenti del mondo, i quali non sono né mito né storia nel senso comune. È la storia del Malakut, il regno dell’invisibile – il Malkuth ebraico, la Decima Sefirah, il regno e la luna d’inverno, la Shekhinah dei cabalisti –, ciò che noi denominiamo storia immaginale, una cronaca senza tempo di paesi e luoghi che compongono una geografia immaginale, una Terra celeste. È la terra degli Angeli ma anche la terra dove vivono la maggior parte delle figure e delle parole dell’arte romantica, dai miti agli archetipi. È la terra reale, la terra della nostalgia, la terra dell’Anima e delle anime, il luogo dove prospera il daimon greco così ben evidenziato da James Hillman (Il codice dell’anima, Adelphi), il mundus cereris della tradizione romana. È la terra delle visioni, delle realtà che non hanno niente a che fare col mondo fisico, né con quella che registra la cronaca e con cui si fa storia, poiché qui, nel mondo immaginale, l’accadimento trascende ogni materializzazione storica. Utilizzando le sue parole, il mondo immaginale «è un mondo esteriore, e che tuttavia non è il mondo fisico, un mondo che ci insegna che si può uscire dallo spazio sensibile senza perciò uscire dall’estensione, e che bisogna uscire dal tempo omogeneo della cronologia per entrare nel tempo qualitativo che è la storia dell’anima». D’altronde lo stesso surrealismo, quando incontra Freud, teorizza che la vera realtà è il sogno e Salvador Dalì trasformò la sua paranoia-critica in prassi onirica in metodo. Ricordando, in ogni caso, il monito di Henry Corbin: «L’immaginario può essere innocuo, l’immaginale non lo è mai».

Condividi l'articolo su:
Avatar photo

Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com