Il sacro gesto delle mani

Mezz’ora di traffico caotico balinese per assistere allo spettacolo di danza del Barong (la lotta tra il Bene e il Male) tratto dal Ramayana – non chiedetemi quale dei 24.000 versi che lo compongono – allestito a Batubulan.

I ballerini tracciavano nell’aria disegni astratti delineati dai loro corpi che solo apparentemente sembravano slanciarsi verso le quattro direzioni del mondo. Il risultato di ogni posa assunta dai ballerini, nonostante la loro agilità e flessuosità, era un fotogramma che sembrava sospeso nell’aria, fermo, statico e immobile, come lo è la ricerca del Vuoto e dello sforzo di arrestare l’inevitabile ruota del destino, il Samsara. Ci si accorge subito del ruolo delle mani: dita che si aprono e si chiudono, che s’alzano e s’abbassano, per poi chiudersi a pugno e riaprirsi come il fiore di loto quando sboccia. E ancora ondulazioni, flessioni, angolazioni inusuali e innaturali, gesti lenti alternati a saettanti scatti degli avambracci che sembrano scossi dai venti più tumultuosi. E si capisce che è proprio nella gestualità, il senso del tutto, la spiegazione di quel frammento del Ramayana, di quel poema epico che celebra le gesta di Rama, guerriero forte e pio, un canto-componimento finalizzato all’educazione e alla comprensione della filosofia induista.

È difficile per noi occidentali comprendere e interpretare la molteplicità gestuale, il senso delle movenze delle dita e della mano, che è lo specchio del mondo. Per assistere a questo spettacolo avevo affrontato la lettura de Lo specchio del Gesto di Nandikesvara, antico trattato indù attribuito a Brahma stesso sull’arte del teatro e della danza, editato con un approfondito studio di Ananda Coomaraswamy (CasadeiLibri Editore); tuttavia lo sforzo di memorizzare l’infinità di movimenti era stato infruttuoso.

Nella gestualità della mano niente è lasciato al caso. Ogni volta che l’attore compie un gesto ripete ciò che centinaia di altri attori hanno compiuto prima di lui e la movenza rimane inalterata nei secoli, a prescindere da quale artista la riproponga, così come una partitura musicale non varia a seconda di chi la suona. «È l’azione stessa, non già l’attore, l’elemento essenziale dell’arte drammatica», scrive Coomaraswamy nell’introduzione.

Questo non deve sembrare un discorso esotico, legato a una concezione della vita artistica tipicamente orientale, sia induista che buddhista. Chi ama le icone, e frequenta quindi le chiese ortodosse, sa che la gestualità delle mani di Cristo (o di Dio, o dei Santi) è fondamentale per capire ciò che vogliono trasmetterci. L’icona altro non è che un frammento liturgico della grande raffigurazione teologica del Nuovo Testamento. Ad esempio il gesto benedicente della mano destra di Cristo e di alcuni Santi – con il palmo della mano aperto verso l’esterno (verso il mondo e nello stesso tempo forma di comunicazione-trasmissione da Cristo ai fedeli), con l’anulare che tocca delicatamente la sommità del pollice, il mignolo retto verso l’alto come fosse un axis mundi, con le dita che compongono IC XC, un’abbreviazione di quattro lettere ampiamente utilizzata dal greco per indicare il nome di Gesù – ci comunica che è nel nome di Gesù che siamo salvati e riceviamo la benedizione. Le tre dita di Cristo confessano la Tri-unità di Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. Questo esempio si potrebbe moltiplicare per la ricca gestualità delle icone, ormai per lo più dimenticata o sottovalutata. Sarebbe interessante indagare la gestualità anche nell’arte romanica, ancora profondamente sacra, o ricercare nelle opere della ricca produzione di arte religiosa dal rinascimento in poi quei gesti delle mani che volevano trasmettere – al di là delle forme, dello stile e della cronologia – il senso teologico di ciò che raffiguravano.

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Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com