1967, l’anno prima 

Mio padre era un tenero dalla scorza dura, un vero capo, di quelli che non hanno bisogno di darlo a vedere. Incarnava insieme l’affetto, la risolutezza e il carisma…

Aveva nome Guerrino, nome giusto per le battaglie; teneva l’animo di un combattente indomito e irriducibile; partecipava ad ogni cosa con passione, direi con ardore; poteva incendiarsi perfino giocando alle carte. Era il tipo che non fuggiva mai di fronte a una tenzone, però puntava sempre ad evitare il conflitto. In fondo era un uomo di pace.

Il babbo non praticava gli sport, però li seguiva. Assieme al suo amico Clemente non perdeva una partita del glorioso Torino, aveva gran stima per il nostro concittadino Livio Berruti e scommetteva sulla medaglia che Eddy Ottoz avrebbe vinto alle olimpiadi di Città del Messico, quelle che erano in programma nel giro di un anno. Ma ciò che lo stregava di più era il pugilato.

In effetti, oltre a leggere ogni sorta di articolo che parlava di boxe e a muoversi anche fino a Milano per assistere a incontri sul ring, scendeva quasi ogni sera in cantina a menare pugni al sacco di sabbia che aveva appeso al soffitto. A volte lo accompagnavo, più che altro per divertimento. E notavo sempre che, negli istanti in cui riprendeva il fiato, osservava con attenzione i manifesti giganti che aveva appeso al muro di destra, cioè a quelli di Primo Carnera, di Rocky Marciano, di Duilio Loi e di un giovane Cassius Clay. A dire il vero io scendevo in cantina non tanto per udire i nomi dei destinatari dei pugni – il primo di tutti era sempre un certo Francisco Franco – ma per dare una bella occhiata ai cartelloni, altrettanto giganti, che il babbo aveva appeso al muro di fronte, cioè a quelli di Sophia Loren, di Marilyn Monroe, di Ava Gardner e di Rita Hayworth. E mentre io concupivo una per una le quattro dee, lui si detergeva il sudore e sogghignava:

“Emiliano, hai 17 anni, oramai… Dimmi! Ti piacciono di più le bionde, le more o le rosse?”  

La cosa buffa era che quegli otto cartelli papà doveva tenerli in cantina; infatti mamma Serena non li avrebbe accettati per niente lungo le pareti di casa, meno che meno appese alle piastrelle del bagno. Diceva che avrebbero rubato spazio ai quadri seri e soprattutto tempo ai pensieri utili e puri…

Sono sicuro che se io avessi avuto un fisico tozzo e robusto, come era il suo, mio padre m’avrebbe comprato all’istante due bei guantoni da boxe e m’avrebbe portato in qualche palestra. Ma io avevo preso da mia madre le gambe lunghe e un corpo snello. 

Ad ogni modo, all’inizio di marzo di quell’indimenticabile 1967 mi prese in disparte e sentenziò: “Emiliano, non perdere più tempo a seguirmi in cantina, tu non sei fatto per il pugilato. Pratica invece l’atletica; con le gambe che hai, dovresti saltare e correre come uno stambecco… Conosco un allenatore che fa al caso tuo”.

Io accettai volentieri l’esortazione, probabilmente l’aspettavo da sempre. Sta di fatto che, già il pomeriggio seguente, mi presentai allo stadio e consegnai un biglietto ad un tipo coi baffi all’ingiù.

Fui messo immediatamente alla prova e già al primo salto superai l’asticella a 1 metro e 60 e, nel lungo, atterrai a 5 metri abbondanti. Ma ciò che stupì maggiormente quel tricheco in tuta rossa fu il fatto che vinsi con largo margine gli 80 metri ad ostacoli. A dire il vero, provai stupore anch’io perché non mi ero mai cimentato prima di allora in una corsa del genere; comunque io uscii dai blocchi di partenza con tempi di reazione perfetti, mantenni il ritmo giusto dei tre passi tra un ostacolo e l’altro, e tagliai il traguardo con un tempo degno di nota.

“Tu m’hai contato balle, ragazzo!.. Tu hai gareggiato ancora.”

“No, signore.”

“Allora torna qui spesso e ti farò diventare un corridore di razza.”.

Effettivamente, nei mesi seguenti, vinsi diverse gare d’atletica ed ebbi la soddisfazione di leggere il mio nome negli articoli sportivi pubblicati sulla stampa locale.

Ovviamente il più contento dei miei successi fu babbo Guerrino.     

Verso quell’uomo provavo affetto e ammirazione profonda, comunque verso la fine di maggio ebbi con lui ripetuti alterchi. Spinto dalla moda introdotta dai Beatles e resa imperante ormai da milioni di giovanotti europei, volevo esibire al più presto anch’io una capigliatura vistosa e avevo preso a modello addirittura il caschetto biondo di Brian Jones. Ebbene, papà Guerrino tentò per settimane di farmi cambiare idea e arrivò al punto di denigrare i Rolling Stones pure nella veste di suonatori; li definì una banda di scapestrati, capaci solo di spargere attorno pessimo esempio.

Ma tutto fu inutile. Io tenni duro e continuai a mettere sul giradischi di casa “Satisfaction” e “Paint it, black”; continuai soprattutto a tenermi alla larga dal vecchio barbiere.

A farmi tornare da lui ci riuscì comunque l’allenatore coi baffi: quando, a inizio settembre, mi vide rientrare in pista con i capelli fin quasi alle spalle, mi fermò e mi disse:

“Emiliano, io faccio correre atleti, non cavalli pazzi dalla criniera bionda!.. Che ti viene in mente? Qui non siamo all’ippodromo!.. Oltre a tutto i capelli al vento ti farebbero perdere secondi preziosi.”

“Me li legherei con un nastro.”

“Ma tu sei un maschio o una femmina?”.

Non mi restò altro che accorciarmi i capelli. In compenso infransi, oltre a tanti record di gara, pure i cuori di diverse ragazze, quelle che mi incitavano dagli spalti o da bordo pista.

A dire il vero, alcune pulzelle mi inviavano pure dei bigliettini davvero arditi; li conservavo in un posto segreto, ma non davo loro risposta. In fondo, invidiavo l’amico Francesco che aveva già adocchiato la splendida Rosa, la sua compagna di classe. Insomma, io avevo tante ragazze ai miei piedi, ma nessuna mi era entrata davvero nel cuore.

Era meglio dunque studiare, finire il liceo e accumulare medaglie.

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 Nel pieno della notte tra il 17 e il 18 di aprile del 1967, nel mentre dormivo alla grande, sentii la  voce di mio padre: “Sveglia, figliolo!.. Sta iniziando l’incontro tra Benvenuti e Griffith!”

Trovai già seduti in cucina l’amico Francesco e suo padre Clemente. Presi posto accanto a loro proprio mentre la pendola appesa in cucina batteva le 4.

La radio cominciò a gracchiare qualcosa da oltre oceano, ma ben presto s’udì chiara la voce del cronista inviato dalla RAI. Paolo Valenti salutò gli italiani in ascolto e per prima cosa disse che al Madison Square Garden erano appena scoccate le 22.

L’incontro iniziò e la radio congiunse ancora una volta due continenti. Però, sotto i nostri occhi, successe di colpo una cosa mai vista, a metà strada tra il preoccupante e il divertente.

Papà Guerrino, già alle prime parole del radiocronista, prese infatti ad alzarsi, a danzar sulle gambe e a sferrare pugni nell’aria. Sembrava ammattito, ma in realtà stava mimando un incontro su di un ring invisibile, una battaglia tutta sua, e ogni tanto lasciava partire un gancio tremendo all’avversario fantasma.

Si esaltò soprattutto durante la seconda ripresa; quando sentì che Nino Benvenuti aveva appena steso al tappeto Emile Griffith con un preciso destro al mento: balzò di nuovo in piedi e sollevò in alto le braccia come se avesse alle mani i guantoni del suo beniamino.

“Vincerà, vincerà!” – predisse al suono del terzo gong.

Invece alla quarta ripresa il babbo penò: sentì dal cronista che il campione nero aveva centrato lo sfidante triestino con un largo destro, lo aveva buttato alle corde e fatto cadere per terra.

“Si riprenderà, vedrai! Quello è un duro!” – lo consolò il Clemente.

Infatti il pugile italiano seppe riprendersi e rimontò progressivamente nelle restanti riprese.

Intanto noi quattro seduti attorno alla radio vivemmo livelli crescenti di eccitazione e giungemmo al gong finale con la gola completamente secca.  

Poco dopo, quando la voce emozionata di Paolo Valenti comunicò a tutta l’Italia il verdetto degli arbitri americani, successe qualcosa che lasciò esterrefatti non solo me, ma anche Francesco e suo padre Clemente: papà Guerrino, in preda a una gioia incontenibile e incurante di poter svegliare qualcuno, aprì la finestra della cucina e gridò fuori nel vano scale:

“Victoria! Victoria!”

“Madonna santa… calmati, Guerrino! Non sono neppure le 6 del mattino!.. Sei forse tornato ai tempi di Guadalajara?”

“È vero, Clemente! Gridavo così, assieme ai compagni, quando vincevamo in battaglia… Ma non solo in Spagna, gridavo così anche quand’ero partigiano in giro per l’Italia.”

“Però adesso datti contegno!.. È appena finito un incontro di boxe, non una battaglia o una guerra!”

“Scommetto, babbo, che “Victoria! Victoria!” era il tuo urlo di battaglia in guerra. Non è vero?”

“Sì. Lo vorrei gridare ancora, ogni giorno. E purtroppo…”

”Ti piacerebbe tornare in Spagna, papà?”

“Come no, figliolo!.. Ma fin che è in vita il dittatore Francisco Franco non potrò andarci, lo sai.”

“Macché, Guerrino! Scommetto che, se tu andassi a trovarlo, il Generalissimo ti aspetterebbe a braccia aperte.” – provocò il Clemente.

“Taci, maiale!.. Io lo odio, Francisco Franco! Come odio tutti gli altri dittatori sparsi nel mondo!.. Oh, quanto vorrei affrontare quella gentaglia sul ring! Li manderei tutti al tappeto, uno per uno, nel giro di una sola ripresa.”

“Ah, ecco chi erano i fantasmi ai quali menavi pugni poc’anzi!”

“Hai indovinato, Clemente… E non fare tanto lo spiritoso, democristiano dei miei stivali!”…

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 Pochi giorni dopo, precisamente ai primi di maggio 1967, sentii il babbo commentare con il Clemente le ultime mosse di Muhammad Ali.

“Oh, Ali non è solo un pugile – il migliore di tutti, neh! – è pure un simbolo, un personaggio come pochi!”

“Che ha fatto di nuovo, pa’?” – chiesi, inserendomi nel loro discorso.

Al che, Guerrino e Clemente iniziarono una narrazione a due voci:

“Caro Emiliano, Ali ha rifiutato di andare in Vietnam a combattere.”

“All’ufficio di leva l’hanno chiamato con il suo vecchio nome da schiavo, cioè Cassius Clay. Ma lui non s’è mosso.”

“L’hanno avvisato che, se non avesse ubbidito, l’avrebbero considerato un disertore.”

“E lui è rimasto al di là della linea che doveva varcare e ha detto: “Non evito l’arruolamento, non brucio la bandiera, non fuggo in Canada, io resto qui.”

“Poi l’hanno informato che il suo rifiuto era diventato un crimine…”

“Un crimine punito con una multa da 10.000 dollari e con la reclusione per cinque anni.”

“Madonna santa! E lui che ha risposto?”

“Volete mandarmi in prigione?.. Fatelo pure! Sono in prigione da più di quattrocento anni, posso starci benissimo per altri quattro… Ma non mi farò mandare da voi a 8.000 chilometri di distanza per uccidere altre povere persone.”

“Allora l’ufficiale seduto di fronte gli ha ricordato che i Vietcong sono nemici degli Stati Uniti.”

“Al che, Muhammad Ali ne ha detta un’altra delle sue…”

“Quale?”

“I miei nemici non sono i Vietnamiti, non sono i Cinesi, non sono i Giapponesi. I miei nemici siete VOI. Siete voi i miei nemici, quando vi opponete alla libertà e all’uguaglianza della mia gente… Io non ho nessun problema con i Vietcong. Nessun Vietcong mi ha trattato come un negro!”.

“Incredibile!.. E come è andata a finire, pa’?”

“Alla fine, Muhammad Ali non l’hanno messo in prigione, ma gli hanno fatto pagare la multa.”

“Ma la cosa più grave – concluse il Clemente – è che una maledetta commissione gli ha ritirato la licenza a combattere sul ring e gli ha revocato il titolo di campione del mondo… Secondo me, ci ha messo il becco il direttore dell’FBI, Edgar Hoover… In pratica, gli hanno stroncato la carriera.” 

“Già, Edgar Hoover! Ecco un altro porco che vorrei colpire a pugni per dieci riprese!”.

“Calmati, pa’! Non pensare ai tuoi nemici. Pensa invece ai tuoi eroi… Dai, elencameli un’altra volta!”

“I personaggi che stimo di più, figliolo, li sai già a memoria… Ma te li ripeto lo stesso, perché mi fa bene… Sono Francesco d’Assisi, Giordano Bruno, Abramo Lincoln, Giuseppe Garibaldi, Emiliano Zapata, Giacomo Matteotti, il Mahatma Gandhi, tutti i partigiani che ho conosciuto in Spagna e in Italia, Fausto Coppi, Ernesto Che Guevara, Martin Luther King, Muhammad Ali e Gigi Meroni.”    

“Ah, ah! Gigi Meroni, l’ala destra del tuo Torino! Quello è un tipo strano che piace tanto anche a me… A proposito di Che Guevara, è un bel po’ che non si sa niente di lui.”

“È vero, figliolo… Ma quello è un tipo che non riesce a star fermo a Cuba con un sigaro in mano. Dev’essere ora in qualche parte del mondo, a preparare un’altra rivoluzione.”

“Insomma a te piacciono tanto i ribelli… Anche tu, pa’, lo sei, vero?”

“Puoi dirlo forte, Emiliano… A proposito di ribelli, poco fa ho rivisto in salotto la copertina di quel 45 giri che nei giorni scorsi hai già messo più volte sul giradischi. Avrei voglia di ascoltarlo di nuovo.”

“Pugni chiusi?!? Ti piace quel brano?”

“Sì, molto. Quel cantante ha una voce unica, straordinaria.”

“Oh! E’ segno del destino, pa’!.. Il tuo gruppo musicale preferito non poteva essere altro che i Ribelli.”.  

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 Venne l’autunno di quel 1967 e, nel giro di soli tre giorni, la lista degli eroi di mio padre s’accorciò tragicamente di due nomi importanti. 

La sera di giovedì 12 ottobre, papà Guerrino arrivò a casa con la faccia triste e prima di andare in bagno buttò sul tavolo una copia de La Stampa. Ed io, già in prima pagina, vidi una fotografia che mi sbalordì. Il corpo esanime del comandante Ernesto Che Guevara – occhi aperti, barba lunga e petto nudo – m’apparve di colpo uguale a quello che risaltava in copertina del mio libro di storia dell’arte, precisamente al Cristo morto di Andrea Mantegna.

Ebbi però solo il tempo di leggere i titoli e poco altro, perché mio padre tornò in cucina e riprese in mano il giornale: “Di quell’eroe hanno ucciso il corpo, non certo le idee!” – esclamò – “Tu, figliolo, ne sentirai parlare ancora da vecchio.”.

Poi disse a mia madre che avrebbe saltato la cena e prima di estraniarsi in salotto sibilò: “Che sia stramaledetta la CIA!”.  

La morte violenta del Che precedette di soli tre giorni quella altrettanto violenta di Gigi Meroni. Domenica 15 ottobre, infatti, il beniamino della squadra granata perse la vita investito da un’auto. L’incidente fece piombare nel lutto l’intera città e anche la mia intera famiglia partecipò al funerale.

La domenica successiva il caso volle che il Torino avesse di fronte la Juventus. Ebbene, io, babbo Guerrino, Clemente e Francesco partecipammo, nel silenzio assoluto di entrambe le tifoserie, ad un pianto collettivo, indimenticabile, liberatorio. Mentre un elicottero sorvolava il campo di gioco lanciando mazzi di fiori. E nessuno si stupì più di tanto per la successiva vittoria del Toro sulle Zebre per 4 a 0.

A distanza di molti anni, ricordo ancora ciò che mi disse Francesco sulla strada che ci riportava a casa: “Questo 1967 sta finendo in tristezza, Emiliano… Prima è morto il Che, adesso Gigi Meroni!.. Speriamo che il 1968 ci porti solo delle novità buone!”. ν

Una “Casupola” editrice

“1967, l’anno prima” di Roberto Corradini è l’ottavo titolo di POCOlibri, che si autodefinisce “casupola editrice, del tutto minuscola, per pochi intimi e al di là di ogni logica commerciale”. Ogni plaquette con doppia copertina conta al massimo una ventina di pagine e ad ogni numero si accompagnano due cartoline, spesso realizzate per l’occasione. POCOlibri è talmente minuscola che ogni numero è stampato con tiratura “felina”: solo 44 copie, tutte numerate a mano. Unico contatto, un indirizzo di posta elettronica: pocolibri@gmail.com

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Pubblicato da Roberto Corradini

Roberto Corradini è nato a Trento nel 1949. Laureato in sociologia, ha lavorato in diversi contesti ma è stato soprattutto un insegnante. Per il momento ha raccontato le sue storie in quattro romanzi: “Il sangue e l’inchiostro” (2015)  “Gente Libera” (2017) con Curcu Genovese, “Nati con la camicia” (2020) con Europa Edizioni e “Satisfaction” (2023) con Edizioni Del Faro, collana “Solenoide”. robertocorradini1949@gmail.com