E il bluesman andò a Timbuktu

Gli anni 90 sono stati, fra le altre cose, gli anni della world music. Si definiva così quella musica di sintesi che nasceva dall’incontro fra  vari filoni musicali “tradizionali” (non uso l’aggettivo “etnici”, perché troppo delicato) e la mondialità dell’universo pop/rock. Potremmo anche definire questa musica “glocale”. Con un piede in Mongolia, in Perù o in Tanzania, e un altro in qualche studio di registrazione occidentale supermoderno. Uno dei fautori della grande diffusione della world music è stato Peter Gabriel con la sua casa discografica Real World, ma se c’è un disco che rappresenta in maniera magnifica questa corrente è “Talking Timbuktu”, del chitarrista e compositore americano Ry Cooder e del cantante e chitarrista del Mali Ali Farka Touré, inciso a Los Angeles e pubblicato nel 1994. Il blues, come noto, è la musica dei neri d’America. Quindi le sue radici sono di fatto in Africa. Il Mali, vasto paese dell’Africa occidentale, è una terra dalle robuste tradizioni musicali; la sua musica è stata definita a volte in maniera spiccia “blues del deserto”. Touré ha però sempre mostrato un certo fastidio nell’essere accostato al blues, sottolineando che la sua musica è diversa, più antica. Ascoltando questo disco, le radici africane emergono con maggiore forza rispetto a quelle del co-autore, il maestro della chitarra slide Ryland Peter Cooder, che ha suonato con un sacco di grandi, fra cui i Rolling Stones, oltre a scrivere la colonna sonora del “Paris, Texas” di Wenders e produrre il fortunatissimo “Buena Vista Social Club”.

“Talking Timbuktu” però non ha avuto seguito. Touré è rimasto per scelta ai margini della scena pop mondiale, tornando a occuparsi della musica del suo Paese, fino alla scomparsa, nel 2006. Questo disco, pluripremiato, è per i nostri standard lento, ipnotico, sognante. Cattura il trascorrere della vita lungo il grande fiume Niger, ai bordi del deserto che oggi i migranti attraversano per cercare miglior fortuna in Europa. Venne inciso in due giorni e mezzo, con musicisti, americani e maliani, che non si erano mai incontrati prima, Touré non amava reincidere. “Certe persone – ha detto in un’intervista – se nominano Timbuktu è come se parlassero della fine del mondo, ma questo non è vero. Io vengo da Timbuktu, e ti posso dire che siamo proprio al centro del cuore del mondo”. 

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Pubblicato da Marco Pontoni

Bolzanino di nascita, trentino d’adozione, cittadino del mondo per vocazione. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, giornalista dai primi anni 90. Amori dichiarati: letteratura, viaggi, la vita interiore. Ha pubblicato il romanzo "Music Box" e la raccolta di racconti "Vengo via con te", ha vinto il Frontiere Grenzen ed è stato finalista al premio Calvino. Ma il meglio deve ancora venire.