Premessa: oh, lettore che pretendi sempre di sapere a che punto della storia ti trovi o – nei dialoghi – chi esattamente dice cosa a chi: qui non ci provare nemmeno! Leggi e non rompere! Ok? ! Fine premessa.
Come di consueto ho lasciato passare il canonico periodo di “santificazione” che segue alla morte di uno scrittore (in cui abbiamo letto perfino che Cormac McCarthy è stato il più grande della storia dell’umanità da quando esiste la scrittura…) in modo che possa dire alcune cose senza ritrovarmi lapidato sulla pubblica via, sebbene digitale.
Ne “Il passeggero” (Einaudi editore, pag. 392, € 21) di carne al fuoco ce n’è davvero tanta, da farci indigestione.
Ammesso che si possa inquadrare una trama, questo l’antefatto: siamo nel 1980 e Bobby Western, sommozzatore di recupero, scopre sul fondo del Mississippi un aereo adagiato sul fondo. Nove persone tra passeggeri ed equipaggio. Ne manca uno.
E fin qui sembrerebbe una classica spy story o qualcosa del genere.
Se non che, Bobby a questo punto inizia un percorso di disvelamento che ci porterà a scoprire un sacco di cose che lo riguardano. Troppe, a mio avviso. E non c’entra solo il fatto che ha come padre un fisico che ha contribuito allo sviluppo della bomba di Hiroshima, ed è anche studioso di matematica, oltre che pilota di Formula 1 (!). I problemi cominciano con la sorella Alicia, schizofrenica, morta suicida, che ci regala interi capitoli (scritti in fastidiosissimo corsivo) con i resoconti dettagliati delle sue visioni malate. A che pro, nell’economia del romanzo, io sinceramente – nella mia ignoranza – non l’ho capito. Specie quando tali passaggi me li ritrovo a ridosso di faticose dissertazioni di meccanica quantistica.
“La sofferenza fa parte della condizione umana e bisogna sopportarla. Ma l’infelicità è una scelta.”
Come è una scelta decidere di leggere fino in fondo un libro come questo solo perché l’autore si chiama Corman McCarthy. Ed è appena morto.
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