Le grotte della percezione

P. aveva tutto pronto. Non era di certo la prima volta che partiva per una missione del genere, eppure anche quel giorno si sentiva come una bambina al suo primo giorno di scuola. Ripeteva a mente gli strumenti che le sarebbero serviti: martelli da speleo e arrampicata, moschettoni e rinvii, scalette e staffe. I martelli erano quanto di più prezioso e personale uno speleologo potesse avere. Servivano a tutto: prima a calarsi nelle strette grotte, poi ad ispezionare le pietre presenti per capire la loro natura. I suoi genitori glieli avevano regalati al suo ventiduesimo compleanno, subito dopo la laurea in Speleologia conseguita all’università di Milano. Arrivata sul punto, una grotta vicino al lago d’Iseo, era tempo di eseguire tutte quelle pratiche vitali di routine che avrebbero permesso a lei e ai suoi colleghi di scendere nella stretta grotta a circa 150 metri sotto terra. Era questo il motivo per il quale da adolescente aveva deciso di fare di quell’inusuale scienza la sua vita: poter vedere cose che nessun’altro aveva la possibilità di vedere, arrivare dove Dio, o chi per lui, aveva creato e al contempo issato delle barriere naturali per evitare che l’uomo, con la sua brama di potere e cupidigia, depredasse anche quei posti. Si sentiva una privilegiata P., una privilegiata investita però di un ruolo altamente onorifico: conoscere, approfondire e difendere le nascoste meraviglie del creato. Tutte le pratiche di pre-immersione erano ultimate, era adesso ora di scendere. Arrivati in profondità, iniziarono le fasi di osservazione del territorio circostante. Mentre P. si avvicinava ad una fonte di acqua naturale, un pezzo di roccia improvvisamente le cadde sul ginocchio, causandole un dolore lancinante e un vistoso ematoma. I suoi compagni nel giro di pochi minuti accorsero tutti sul posto, rendendosi conto immediatamente della pericolosità della situazione. Il protocollo in questi casi era chiaro, in tutta la sua spietatezza: il ferito non poteva in alcun modo risalire, le sue ferite non gli avrebbero permesso di passare indenne attraverso le strettoie. Andavano allertati i soccorsi, e l’unico modo per farlo era tornare in superficie lasciando il ferito da solo, possibilmente per il minor tempo possibile. Una volta ricevute tutte le provviste possibili, P. salutò i suoi colleghi, sperando di poterli rivedere già nel giro di qualche ora. Il ginocchio, oltre ad un dolore penetrante, la impediva da qualsiasi movimento. I soccorsi arrivarono già in serata, eppure parve subito chiaro come non fosse possibile effettuare il salvataggio nell’immediato, visti i passaggi molto stretti per arrivare alla grotta. P. non era spaventata, però la sua ferita, unita ai forti antidolorifici assunti, le avevano dolcemente annebbiato i sensi. Entrò lentamente e inesorabilmente in uno stato alterato di coscienza. P. non sa quanto tempo passò, eppure è abbastanza sicura di quello che vide. In quelle ore, che poi venne a sapere furono circa 48, P. ebbe l’occasione di parlare con il creatore e il custode di tutte quelle caverne che negli anni aveva visitato e tentato di onorare con il suo rispetto. Non fu un dialogo fatto di botta e risposta, bensì più un monologo di P. in cui il suo interlocutore si limitava a rispondere a monosillabi. 

Tornata in superficie, P. era serena, il ginocchio non era più un problema. A quanti le chiesero come stesse, rispose che andava bene. Del suo dialogo non ne parlò con nessuno: sarebbe stato il suo segreto, suo e di tutti i tesori nascosti che avrebbe, con silente e stoico impegno, continuato a difendere. 

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Pubblicato da Fabio Loperfido

Nato allo scadere del millennio, Fabio è uno studente errante che ancora non ha ben chiaro cosa potrebbe volere il mondo da uno come lui. Nel mentre prova ad offrire ciò che vede con i suoi occhi tramite una sua lettura, con la speranza che il suo punto di vista possa essere d'aiuto a qualcuno martellato dai suoi stessi interrogativi.