Il corpo come linguaggio

Mishima Yukio (1925-1970), come San Sebastiano

Nel 1974 la critica d’arte Lea Vergine dette alle stampe Il corpo come Linguaggio. La “Body-art” e storie simili (Prearo Editore, Milano), summa dell’uso del corpo come linguaggio. Poche righe scritte, moltissime fotografie che testimoniano il percorso della messa in crisi dei ruoli, della riscoperta del proprio Io più profondo, del mostrare fino in fondo le proprie debolezze fisiche e psichiche, del raccontare le proprie storie disegnando, scrivendo, intagliando e lacerando il proprio corpo. Gli artisti presenti nel libro inglobavano anche le saette corporali e i riti di Hermann Nitsch, di Otto Muehl, di Rudolf Schwarzkogler, ovvero di quel Wiener Aktionismus che più di altri ha saputo spostare i confini del proprio corpo dentro l’inconscio più profondo (portandolo alla superficie e trasformandolo in rito) e i limiti del pudore sul rapporto coi propri umori/escrementi condannati per secoli dal pensiero borghese, fino ad atti di crudeltà sulla propria pelle e fino alla morte, come avvenne proprio per Rudolf Schwarzkogler nel 1969, suicidatosi in pubblico all’età di 28 anni a seguito di una prova di castrazione, o per altri gettatisi dalla finestra della propria camera da letto.

Il corpo come luogo, come territorio, come massima opera d’arte – nel bene e nel male, nella bellezza e nella tragedia – è un tema che ha attraversato le contestazioni giovanili del ’68, la body art, il teatro di Antonin Artaud e Jerzy Grotowski, il Living Theatre e prima ancora le incursioni dei surrealisti nella città come corpo; ma l’oriente già da secoli aveva indagato le molteplici vie per narrare la corporeità: le pratiche del Mudra, ovvero i gesti simboli delle mani, lo Zen, concentrazione e controllo corporeo, fino ad arrivare al tantrismo e al dilagare del corpo nella frequentazione cadaverica dei cimiteri tra pire di corpi bruciati e ginnastiche erotiche dove tutto è sacro, comprese le cose “proibite”. Probabilmente è stato quando l’occidente ha aperto gli occhi sull’oriente che i flussi culturali si sono invertiti e, tramite la California (pensiamo soltanto a Cy Twombly e alle sue sperimentazioni calligrafiche zen), sono approdati nel nostro mondo.

Sicuramente il primo body artist che conosciamo è quel Jean Floressas Des Esseintes, giovane aristocratico, esteta, fautore di una vita per l’arte e di un’arte della vita, così ben narrato da Joris Karl Huysmans (Controcorrente, 1884). Ma i cultori di questi territori non possono certamente tralasciare la lettura de La morte d’oro, del giapponese Jun’ichirō Tanizaki, apparso a Tokyo nel 1914. L’autore nipponico porta alle estreme conseguenze l’idea del corpo come opera d’arte, con una sola finalità: la propria bella morte. Tanizaki, conscio del tragico approdo finale, sconfessò da subito il suo racconto e non lo volle mai includere in nessuna raccolta. Si narra del body artist ante litteram Okamura e della sua idea dell’arte: la bellezza sta nello sguardo, un solo sguardo, nel momento in cui la bellezza raggiunge il massimo della sua intensità. Okamura finirà per immolarsi nel grande giardino-tempio-opera d’arte da lui costruito, lasciando ai posteri l’immagine di un viso e di un corpo che farà dire al suo più caro amico «non avevo mai visto un cadavere così bello. Non avevo mai visto un corpo morto così luminoso e maestoso senza neanche un velo di tristezza».

Sarà Mishima Yukio a materializzare questa filosofia dell’arte della perfezione quando il 25 novembre 1970 si toglie la vita tramite seppuku, il suicidio rituale dei samurai, attenendosi a quanto aveva scritto in Sole e acciaio: «la scultura che rappresenta il corpo umano celebra con marmo imperituro l’essenza effimera della carne. Ne consegue che appena, oltre, un attimo dopo, preme già la morte». E morte fu, per evitare la decadenza della carne. C’è un’immagine di Mishima che anticipa moltissime azioni della body art: quando si fa fotografare come fosse il San Sebastiano di Guido Reni.

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Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com