L’ultima notte

Le ragazze di Via della Vigna erano partite all’inizio dell’estate, una dopo l’altra. E non sarebbero tornate mai più. 

Francesca, invece, aveva deciso di partire alla fine di settembre. Proprio lei, che aveva sempre detto che non vedeva l’ora di andarsene.

Luca era andato a darle una mano a fare i bagagli, a foderare i vestiti nel nylon, mettere i libri negli scatoloni. Aveva staccato dal muro il suo poster con un Pierrot lacrimante seduto a cavalcioni di un falcetto di luna. Francesca si era finta indifferente. Aveva impartito qualche ordine, scostandosi di tanto in tanto i capelli color senape che le cadevano diritti sulle guance, spingendo il piccolo naso all’insù. 

Ma alla fine aveva attaccato a piangere e si era arrabbiata perché non avrebbe voluto. Lui le si era fatto vicino come per abbracciarla e le voleva dire qualcosa. Ma solo di restare poteva dirle. E Francesca restare ormai non poteva. Così le aveva fatto una carezza, più che altro appoggiato una mano sulla guancia, sulla spalla.

Francesca aveva preso a pestare i piedi avanti e indietro in quello stanzone quasi vuoto, sulle mattonelle verde bottiglia, muovendo i pugni in aria, con le lacrime che le rigavano le guance. Si capiva che cercava un pretesto, una scusa. Ma era troppo tardi.

A primavera Luca e gli altri le aspettavano in piazza. Si incontravano di sera, di ritorno dall’università o dalla biblioteca. Le ragazze di via della Vigna arrivavano in tuta da ginnastica, in jeans e maglietta. A volte eleganti, con il mascara sulle ciglia, l’ombretto, il rossetto. Se volevano, ci sapevano fare.

Luca e gli amici le chiamavano da lontano. E loro rispondevano con un gesto della mano. Venivano sorridendo, chinandosi l’una verso l’altra a sussurrarsi qualcosa all’orecchio. Si sedevano sulla scalinata della basilica a guardare la sera che calava sopra i tetti, tra il campanile della Signoria e il Bargello, nel pacifico via vai della bassa stagione. 

Finiva che se li tiravano dietro, lì, in Via della Vigna, improvvisavano qualcosa per cena in quel buco al pianterreno del numero sei. E poi uscivano di nuovo, a spasso per il quartiere, al bar di via de’ Benci, da Vivoli, al cinema Alfieri. O di nuovo in piazza ad ascoltare un chitarrista di passaggio, un suonatore di bongos con le unghie sporche e gli occhi che lacrimavano. 

Erano così quelle ragazze: allegre, con la battuta pronta. Ma non Francesca. Lei voleva essere diversa. Te lo faceva capire subito chi era lei, alzando la fronte, il mento all’insù, lanciandoti un’occhiata alla punta delle scarpe. 

Lei era seria, responsabile. Teneva dentro una piccola cornice il ritratto del suo fidanzato Valerio. Lei diceva “il mio fidanzato” perché era una ragazza per bene. Un giorno lo avrebbe sposato. Ne parlava con vaghe allusioni che ai ragazzi suonavano come minacce. E guardava rapita il suo Valerio, chiuso dentro quella brutta cornice di alabastro. Giungeva le mani e con le punte dell’indice e del pollice si tormentava l’anellino d’oro che lui le aveva regalato.

Ma quella sera, prima che lei se ne andasse, era accaduto qualcosa. Non che lo avesse deciso, non era stata una scelta, non un calcolo. Era accaduto così, come a volte succede. Forse per questo Francesca aveva aspettato tanto, perché alla fine aveva capito che cos’era stato quel tempo e quanto ne aveva perduto. 

Impacchettata tutta quella roba, Luca se n’era andato al bar. Francesca non aveva voluto seguirlo, quell’ultima sera la voleva passare da sola. Ma mentre la radio mandava All you need is Love, era comparsa sulla soglia. Si era guardata attorno un poco affannata, dondolandosi sulla punta dei piedi. Aveva un’aria diversa, tenera e indifesa. 

Luca le aveva sorriso, l’aveva invitata a sedere. E lei da principio era sembrata diffidente. Ma poi aveva fatto un gesto brusco col braccio come per buttarsi alle spalle qualcosa. Si era seduta, si era abbandonata con i gomiti sul tavolino. E le era presa la voglia di aprirsi e di parlare, come non aveva parlato mai. Così avevano chiacchierato, seduti l’uno accanto all’altra, le luci del bar ormai mezze spente, la segatura sparsa sul pavimento, gli ultimi giocatori ingobbiti contro il bancone. E la musica volava fuori, nella piazza, nell’aria che già rinfrescava, su, nel cielo che già si era fatto più scuro.

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Era arrivata l’ora di andare. Quando avevano imboccato via della Vigna, Francesca si era fatta seria. Era ritornata la Francesca di sempre. Lui l’aveva capito. E così, giunti davanti al portone, l’aveva abbracciata, augurato buon viaggio e buona fortuna. 

Ma quando aveva fatto per andarsene… nooo! aveva gridato lei a mezza voce. E con un gesto ubriaco della mano si era buttata di lato i capelli. Aveva spalancato gli occhi e il volto le si era illuminato.

Era piombata dentro con l’aria di chi non capisce che cosa le stia succedendo. E perché. Teneva lo sguardo basso, le si leggeva in viso il travaglio del dubbio. E poi aveva attaccato a ridere, coprendosi il volto con le mani.

Era sparita in bagno, sgattaiolata fuori e scivolate sotto le lenzuola che aveva approntato sul divano per quell’ultima notte. Si era tirata la coperta fin sotto il naso. 

Faceva più freddo che in strada lì dentro. Luca non sapeva che fare. Lei lo guardava con la coda dell’occhio.

Poi aveva detto:

– E ora? Guarda che se vuoi restare, ti toccherà dormire per terra.

E si era rannicchiata felice, lei, di stare al calduccio.

Luca aveva alzato le spalle: 

– Sì, me ne starò per terra.

Si era sdraiato sul pavimento, s’era rigirato un lembo del tappeto a mo’ di coperta. Francesca aveva alzato un poco la testa sopra il cuscino, sporgendosi di lato per guardare.

– Ottima idea! Buona notte.

Spenta la piccola abat-jour, era filtrata tra le imposte la luce del lampione di via della Vigna.

Luca se ne stava sdraiato sul pavimento di mattonelle. Erano perfino profumate, quelle mattonelle, le ragazze, in certe loro improvvise resurrezioni, le lavavano, le strigliavano e tiravano tre mani di cera, con furia espiatrice, fino a renderle davvero splendenti. Erano così quelle ragazze: se ne stavano senza far nulla per giorni. Poi d’un tratto le invadeva la frenesia. E attaccavano con furia a pulire ogni cosa. E a studiare.

Era duro il pavimento, e il tappeto era ruvido e spinoso. Luca si era girato e rigirato. Si sentiva gelare. Si era sentito buffo e gli era scappato da ridere. 

Dalla finestra giungeva il brusio della notte. La notte ha un suo respiro, un suo perenne rumorio. Ti tiene compagnia. Si sentivano i passi sul selciato di qualcuno che passava nella via. Si sentivano i rumori del forno lì accanto, il ronzare dei ventilatori, i colpi delle pale. Si sentiva il fornaio che si era affacciato e parlottava con il suo socio. Si sentiva lo scorrere di liquidi misteriosi nelle tubature dell’antico palazzo.

Per Luca non c’era verso di chiudere occhio. Sentiva il respiro regolare di Francesca. Gli era anche sembrato di sentire nell’aria il suo profumo. 

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Che cosa c’è nel respiro delle ragazze, nel loro calore, dentro, molto più dentro, dove neppure il sangue arriva? Nell’anima, forse. Che cosa c’è che chiama con forza, che chiama un uomo e una donna e li fa tornare dai loro luoghi lontani? Forse è questo che chiama, la lontananza. È il bisogno di tornare. Di riunire ciò che è stato separato, di colmare un vuoto. Il desiderio di abbandonarsi. Di perdersi in una nostalgia. 

È quello che non si può. Quello che sta oltre, al di là del fossato che separa un uomo e una donna. O è altro? E che cos’altro è?

Nel respiro di Francesca, Luca ha sentito quel richiamo. Non c’è pensiero in quel richiamo, non ci sono parole. Non è una voce. È il canto muto dell’inesplorato corpo dell’altro, più forte di ogni parola. È un vento d’alta quota, una corrente sottomarina. È la forza d’attrazione dei magneti, di lontani corpi luminosi magicamente sospesi negli spazi infiniti. 

È una forza di cui Luca non sa il nome. 

Si era alzato, si era massaggiato le braccia gelate. Si era accostato al divano, si era chinato su Francesca. Era sveglia, gli occhi spalancati brillavano nel buio azzurro della stanza.

– Sto morendo di freddo – le aveva sussurrato. – Ti prego, prendimi con te.

Francesca era sbottata in una risatina sommessa. Aveva sospirato per farsi pregare ancora un poco. Aveva sussurrato un sì, come in un soffio. Si era fatta da parte e aveva alzato un poco il lenzuolo perché lui ci si potesse infilare.

Era caldo lì sotto. Luca era rabbrividito. Si era rannicchiato accanto a Francesca e lei lo aveva abbracciato e lo aveva tenuto stretto. Almeno in quell’ultima notte, aveva voluto tenersi stretto quel tempo, quegli anni felici, per non lasciarli mai più.

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Pubblicato da Valentino Corona

Valentino Corona vive a Trento. Laurea in filosofia, master in glottodidattica. Ha insegnato nelle scuole superiori in Italia, Svizzera e Germania. È stato Lettore di italiano all’Università Comenio di Bratislava (Repubblica Slovacca) e all’Università “J. Dobrila” di Pola (Croazia). Ha pubblicato la raccolta di poesie Sola verità del cuore è la memoria (2012), il diario del Cammino di Santiago Meglio non chiedere. Volevo andare da solo a Santiago (2014) e il romanzo-saggio Blues siberiano (2017).