Non è bello ciò che è bello

A chi non piace curiosare un po’ tra le cose degli altri per conoscere qualcosa in più su di loro? Chi non ha mai ceduto alla tentazione di sbirciare un po’ sulle mensole dei bagni delle persone che ci ospitano per una serata? Quante cose della nostra vita, dei nostri modi di vivere, delle nostre abitudini dicono gli oggetti che utilizziamo per “farci belli e belle”?

Cristina Cassese, antropologa, autrice, formatrice, ha trasformato un piccolo “piacere proibito” come quello di aprire gli armadietti dei bagni di parenti e amiche in una ampia e interessante riflessione raccolta nel suo primo libro “Il bello che piace. Antropologia del corpo in dieci oggetti”, edito da Enrico Damiani Editore.

L’autrice, attraverso dieci oggetti d’uso quotidiano (specchio, spazzola, rasoio, lavatrice, profumo, rossetto, bilancia, tacchi, tatuaggio, carta igienica), analizza le tante declinazioni della bellezza in epoche e culture diverse, in un saggio rigoroso e appassionante che permette di scoprire cosa si nasconde dietro gesti e abitudini che diamo per scontati.

Dall’abbigliamento alle acconciature, dalla depilazione al trucco, dall’igiene personale ai tatuaggi, ogni giorno costruiamo culturalmente il nostro corpo seguendo – o sfidando – un complesso sistema di valori talmente interiorizzato da sembrare naturale. L’antropologia del corpo si occupa di queste pratiche, dei loro significati e dei processi che ne determinano la nascita, la diffusione e persino l’estinzione.

In un’intervista, spiega del suo lavoro, della sua ricerca e di quanto “il bello che piace” non sia proprio così soggettivo come crediamo, ma costruito invece su una conformità estetica definita per lo più dalla società e dalla cultura in cui siamo immersi.

Che lavoro fa l’antropologa?

L’antropologia si occupa di studiare i modi di vivere degli esseri umani a partire dalla quotidianità: il cibo, le relazioni familiari e interpersonali, le tradizioni, le usanze. Come diceva Ugo Fabietti, l’antropologia è un sapere di frontiera, una disciplina che sta sul confine: benché esistano delle necessità universali – mangiare, dormire, comunicare, fare comunità – l’umanità si caratterizza per la sua straordinaria eterogeneità. Il mio lavoro consiste nel mettere il naso nei modi di fare altrui attraverso l’osservazione e il dialogo.

Cosa c’entra il corpo con l’antropologia?

Il corpo è il primo strumento degli esseri umani, è il mezzo attraverso il quale entriamo in relazione con il mondo e con le altre persone. Inoltre, a causa della sua scarsa specializzazione – non abbiamo ali né pinne né zanne – il corpo umano è oggetto di modificazioni culturali. Nessuna società al mondo lascia il corpo così com’è allo stato di natura. Al contrario, ogni gruppo sociale prevede una serie di interventi estetici sui corpi. L’antropologia del corpo si occupa di questi segni, dei loro significati e dei processi che ne determinano la nascita e la diffusione.

Come hai deciso di scrivere questo libro? Cosa ti ha spinta?

Per alcuni anni ho insegnato Lettere in un Istituto di formazione professionale di estetica e di acconciatura e il tema della bellezza è al centro del lavoro didattico. Ogni società, in effetti, propone un certo ideale di conformità estetica che il più delle volte viene recepito come qualcosa di oggettivo e di immutabile. Non è così e lo scopo di questo libro è dimostrare in che modo si formano le tante declinazioni di bellezza che l’umanità ha prodotto nel tempo e nello spazio. Inoltre, mi piace molto spiare nei bagni altrui: ho scelto i dieci oggetti che compaiono più di frequente e che permettono di scavare nella storia delle convenzioni sociali a proposito di bellezza, non solo in Occidente. 

Qualche esempio degli oggetti che sono raccontati nel libro?

Il rossetto è in un certo senso l’emblema del mondo beauty, il simbolo della bellezza e della cura del proprio aspetto attraverso l’antichissima arte del trucco. Oggi la associamo esclusivamente alla femminilità e per le donne truccarsi è diventato quasi un dovere sociale, ma per secoli si sono truccati anche gli uomini e in alcune culture ancora è così.

Un altro oggetto è il profumo che ci permette di esplorare altre vie rispetto alla rappresentazione visiva. Seppur nella nostra cultura conti soprattutto la vista, negli ultimi secoli siamo diventati quasi “puzzofobici”, ma ovviamente a puzzare sono sempre gli altri: gli arabi, gli ebrei, gli africani, i poveri. L’antropologia ci ricorda che ognuno di noi è “l’altro” per qualcuno: per gli orientali, per esempio, quelli che puzzano siamo noi. 

Infine, la carta igienica. Non è forse il primo oggetto che associamo alla bellezza e alla cura del corpo ma è molto interessante perché riguarda la sfera dell’igiene e della salute, raccontandoci che rapporto abbiamo con il nostro corpo: non toccarlo direttamente dopo averlo evacuato ci fa sentire protetti. Senza voler minimamente negare l’importanza di certe abitudini igieniche, c’è da chiedersi se questa nostra paura non abbia assunto caratteristiche un po’ paranoiche. La carta igienica ha un impatto ambientale notevolissimo: per soddisfare il fabbisogno mondiale si abbattono ogni anno dai 270 ai 300 mila alberi. Per un solo rotolo servono 37 litri d’acqua e in media ognuno di noi ne consuma circa 170 l’anno. Nel libro indico alcune alternative possibili, ma per far sì che si diffondano credo che debba prima di tutto cambiare il nostro rapporto con le sostanze di scarto prodotte dal corpo che sono ancora un tabù. 

Il titolo ricorda il proverbio “non è è bello ciò che è bello, è bello ciò che piace”: ma cosa è bello? Cosa ci piace? Cosa costruisce il nostro gusto?

C’è il bello oggettivo, o meglio alcuni criteri – pochissimi, a dir la verità – che potremmo definire universali e quindi riconoscibili come oggettivi. Per esempio la simmetria e una pelle senza rughe: non si va infatti va dal chirurgo estetico per farsi fare un seno più grande dell’altro e la giovinezza rimanda a ragioni banali, ovvero la percezione del nostro cervello di “garanzie riproduttive”.

Poi c’è “il bello che ci piace” perché è conforme a un modello socialmente condiviso. Quanto imbarazzo proviamo quando guardiamo una foto di come portavamo i capelli negli anni ‘80? I modelli socialmente condivisi di bellezza cambiano, anche piuttosto rapidamente, e dipendono da fattori diversi, dalla religione all’economia, dalla politica alla medicina. Infine c’è “il bello che piace a me ma magari non piace a te”, anche se facciamo parte della stessa società, anche se condividiamo la stessa “cultura”: questo dipende dalle esperienze di  piacere, di gioia, o al contrario di disagio, che riguardano il vissuto di ognuno e ognuna di noi. Dietro ciò che consideriamo “bello” c’è una stratificazione di simboli, di valori e di esperienze. C’è una grande complessità e lo voglio sottolineare perché generalmente questo è un argomento considerato di poco conto. C’è un distinguo pregiudiziale tra l’estetica intesa filosoficamente, l’estetica di Kant e dei grandi pensatori e l’estetica comune, intesa come pratiche cosmetiche. In realtà l’estetica nella sua accezione più completa non è affatto una cosa semplice ma ha a che fare con processi sociali estremamente complessi che riguardano la costruzione antropologia della nostra stessa umanità.

Filtri bellezza, body positivity, giudizi sui corpi degli altri e delle altre: i social media sono una piazza in cui la bellezza si crea, si distrugge, si mostra. Che ruolo hanno questi strumenti all’interno del dibattito?

Un ruolo ambiguo e ambivalente. Pensiamo ai selfie o alle foto che postiamo sui social: nella stragrande maggioranza dei casi, lo scopo di questi scatti è ottenere l’approvazione altrui. Mentre nella fotografia tradizionale l’obiettivo era prolungare la memoria di sé, coltivare ricordi da condividere ma con una cerchia molto ristretta di persone, i social network hanno innescato una dinamica sociale che sta producendo effetti allarmanti per il nostro benessere e per il rapporto che abbiamo con la nostra corporeità. D’altra parte, come per tutte le cose, i social non hanno conseguenze solo negative: se da una parte alimentano il bisogno di approvazione e di adesione a un modello omologato di bellezza fisica, dall’altra è anche vero che proprio grazie ai social le rappresentazioni corporee si sono moltiplicate e certe pratiche estetiche iniziano a essere messe in discussione, favorendo la legittimazione di alcune scelte personali che sono ancora oggetto di stigmatizzazione sociale.

Quello che porti avanti con questo libro, ma non solo, è un grande lavoro di divulgazione su temi estremamente quotidiani, ma che spesso, come accennavi, vengono trattati con superficialità. Oppure, al contrario, resi inaccessibili perché affrontati “con parole difficili”. Cosa invece ci restituisce un lavoro di divulgazione di temi antropologici? Quali sono i “tuoi” strumenti e dove possiamo trovarli? 

L’antropologia restituisce uno sguardo che allarga le prospettive e oggi più che mai abbiamo bisogno di confrontarci con la diversità e di prendere in considerazione altri modi di stare al mondo. Il modello capitalista occidentale sta collassando, la crisi climatica è sempre più evidente così come lo sono le sue devastanti conseguenze: si tratta di fenomeni estremamente complessi, le informazioni non mancano, ma non sono facilmente comprensibili. La divulgazione in genere, e nello specifico quella antropologica, serve a rendere accessibile questa complessità: senza conoscenza non può esserci consapevolezza e senza consapevolezza non può esserci cambiamento. Proprio per questo tre anni fa ho deciso di realizzare un podcast gratuito e indipendente dedicato ai temi dell’antropologia culturale e disponibile su tutte le piattaforme audio, da Spotify a Apple Podcast. Si chiama “Nomadismo Professionale” perché il lavoro di ricerca antropologica è sempre in movimento, inquieto, nomade ma anche perché viaggiando – anche attraverso un libro o un contenuto audio – si è costretti a mettere in discussione le proprie abitudini e convinzioni.

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Pubblicato da Susanna Caldonazzi

Laureata in comunicazione e iscritta all'Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige dal 2008, inizia la sua esperienza professionale nella redazione di Radio Dolomiti. Collabora con quotidiani, agenzie di stampa, giornali on line, scrive per la televisione e si dedica all'attività di ufficio stampa e comunicazione in ambito culturale. Attualmente è responsabile comunicazione e ufficio stampa di Oriente Occidente, collabora come ufficio stampa con alcune compagnie, oltre a continuare l'attività di giornalista free lance scrivendo per lo più di di cultura e spettacolo. Di cultura si mangia, ma il vero amore è la pasticceria.