Prima che la luce elettrica azzerasse il mistero del chiaroscuro nelle chiese medioevali, la luce era un elemento fondamentale, ottenuto grazie a un sapiente gioco di aperture studiate e realizzate attraverso complessi programmi architettonici e iconici. «La luce o è nata qui o catturata qui libera regna» recita l’iscrizione nel vestibolo della cappella arcivescovile ravennate, voluta dal vescovo Pietro II tra il 494 e il 519 d.C.
In aggiunta alle monofore, che a est illuminano l’altare, cuore palpitante della chiesa stessa, è a partire dal tardoromanico, per poi esplodere nell’età gotica, che le facciate occidentali si arricchiscono di rosoni scanditi da raggi e campiture vitree che illuminano la navata e il percorso che il fedele deve compiere verso l’altare, verso l’oriente e la salvezza ricordando l’Eden, il paradiso perduto.
Salendo per via Verdi, a Trento, ci si trova proprio di fronte al grande rosone del duomo, collocato là dove gli ultimi raggi del sole propagano la loro luce prima di sparire nel mondo dei morti dove, secondo gli egizi, l’astro della vita dovrà combattere una dura lotta con il serpente Apopis per poi sconfiggerlo e rinascere nuovamente.
È il tramonto, questo frammento temporale di breve durata, a regalarci visioni cromatiche tra le più suggestive. In questa luce quasi diafana gli spicchi vitrei dai sapienti giochi geometrici ci mostrano – per chi sa coglierne la bellezza simbolica – la speranza nella vita eterna, un girotondo degli Angeli e dei beati attorno al Centro-Dio. La luce è, per l’arte religiosa, un importante legame tra il tempo e lo spazio, finalizzato alla liturgia che si svolge nel Tempio. E qui, il rosone del duomo di Trento diventa lago della vita, dove si sposano la terra e il cielo; è corrispondente alla rosa dei venti e da qualunque parte lo si guardi rimane sempre una ruota che gira, che propaga il Credo, la Legge Divina.
“Rosone” prende il nome dalla rosa, è il segno architettonico del Sole, una ruota di fuoco che segna i cicli della vita, ed è affine al mandala, l’eterno ritorno circolare. Il punto al centro del cerchio è l’emblema del Principio, il cerchio quello del mondo. I raggi-spicchi sono i congiungimenti tra i due momenti: 12 raggi, 12 apostoli, 4 raggi, 4 Evangelisti, ecc., sempre per multipli di 4 (16 spicchi nel rosone occidentale del duomo di Trento). Qui sono raffigurati l’immobilità assoluta del centro e l’assoluto movimento degli spicchi, come la ruota il cui punto centrale è perfettamente immobile e fonte di ogni movimento.
L’origine del rosone sta sicuramente nei mandala orientali o nella celebre ruota celtica mediata dalla cultura dell’architettura islamica. I suoi modelli più prossimi sono le finestre rotonde delle chiese mozarabiche spagnole – cioè quelle moro-cristiane – tramezzate di pietre o di stucchi. Nell’architettura cristiana il rosone riprende il ruolo svolto dal monogramma di Cristo che ornava con quest’identico cerchio irradiante i frontoni siriaci, bizantini, poi romanici e infine gotici.
Attorno al centro ruotano i numeri. Dall’Uno si passa al molteplice. Già Agostino riteneva che il rapporto più ammirevole fosse quello dell’uguaglianza o simmetria, il rapporto 1:1, seguono poi nell’ordine i rapporti 1:2, 2:3, 3:4, gli intervalli degli accordi perfetti, rifacendosi al passo biblico «tu hai ordinato tutte le cose secondo misura, numero e peso» (Sapienza, 11.20). Il maggior cantore della Luce è sicuramente Dante, che nel Paradiso racconta del luogo felice come di una grande fuga impostata sul tema della luce divina. E Dante visse nel periodo in cui le monofore e le trifore della facciata occidentale stavano mutando e concentrandosi nel rosone, diventato in seguito l’oculo nelle piccole chiese alpestri: il raggio solare è concentrato e attraversa tutta la navata fino a colpire, in certi edifici religiosi, l’altare stesso.
Oltre al sapiente gioco numerico degli Angeli che danzano, non va dimenticata la sublime teologia della luce che vuole comunicare ai fedeli una visione del sacramento eucaristico quale luce divina che trasfigura l’oscurità della materia.
Rosone-rosa mistica. Come non pensare all’accostamento e quindi al passaggio dall’Uno Dio alla Vergine Maria, definita come Rosa Mistica? La rosa simbolicamente è equivalente al Graal, ossia la coppa che raccoglie il sangue di Cristo. Ma abbiamo anche la Candida rosa come rappresentazione nella Divina Commedia, ossia il luogo dove risiedono le anime del Paradiso. Il nome rosa/rosone si avvicina anche a quello del rosario che possiede sempre un legame finale con la Madonna. Questo richiamo mariano è inevitabile, dato che molte chiese sono dedicate alla Nostra Signora.
Ruota della Fortuna, l’antica Dea Tyche
Se osservate le pareti settentrionali delle chiese, a eccetto delle cattedrali e delle basiliche, noterete che tendenzialmente non hanno aperture. Essendo assimilata a Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, la luce non poteva certo entrare dal lato dell’ombra, dove spirano i freddi venti del nord: questo lato subisce una sorta di maledizione di cui dà un’idea molto precisa l’iscrizione in versi leonini che si vede incisa sul muro settentrionale della cattedrale di Vaison, in Francia: «vi supplico, fratelli, superate la parte dell’aquilone» ovvero guardatevi dalla tramontana, il vento del nord considerato devastatore e portatore delle tenebre. Il terrore del nord deriva direttamente dalla Bibbia: «dal settentrione la disgrazia si spanderà su tutti gli abitanti del paese» si legge in Geremia (46-20). Il Dio di Geremia si pronuncia contro i regni del nord da cui vengono la malizia e l’idolatria. Questo a differenza della cultura ellenista che vedeva nel nord il regno degli Iperborei da cui derivava la saggezza.
Se da una parte la parete nord permetteva agli affrescatori di sbizzarrirsi con interi cicli pittorici senza essere interrotti da finestre o porte – il ciclo della storia del Santo in San Lorenzo a Tenno, scene dell’Antico e Nuovo Testamento nella cappella di Castel Appiano, in San Valentino a Campolasta in val Sarentino, in Sant’Elena a Nova Ponente, in San Giorgio a Corona, ecc. – dall’altra la si considerava la meno sacra dell’edificio, la più laica. Là potevano apparire storie profane oppure, come nel duomo di Trento, il rosone con la pagana Ruota della Fortuna, l’antica Dea Tyche, che “gira” ineluttabilmente, scandendo un tempo tutto particolare, fuori da ogni logica matematica. È una fortuna che accomuna ricchi e poveri, mercanti e contadini, principi e servi della gleba. Nessuna decorazione sacra la orna.
Dodici braccia la contraddistinguono, come i mesi dell’anno, come le ore che scandiscono la giornata. La Ruota richiama l’idea di rotazione, quindi il continuo cambiamento cui sono sottoposte tutte le cose manifestate e per questo si parla anche della ruota del divenire. La divinità romana del destino, simbolo del capriccio e dell’arbitrio, comanda l’esistenza di ognuno di noi. Il suo è un ruolo svolto non per cattiveria né per odio contro qualcuno: rispetto alle persone è completamente indifferente, come è indifferente alle conseguenze derivanti dal capriccio o dal caso. Le posizioni delle braccia sembrano spingere la ruota che, a differenza di molte altre ruote presenti nell’architettura romanica e gotica, gira in senso antiorario e presenta ben 12 figure.
Una Dea, come quella della Fortuna, non si muove ma fa muovere, non è diretta ma dirige.
Sulla cornice esterna, corrispondente simbolicamente alla terra, cinque figure umane sono discendenti, sei ascendenti e, al vertice, una figura regale, seduta su di un trono e con la testa coronata, è colta mentre con le mani alza verso l’alto due coppe. Il lento girare delle ore e dei mesi porta verso l’alto le fortune degli uomini, così come le può far precipitare nuovamente verso il basso. Come ci ricorda Anacreonte «la vita umana rotola incessantemente come i raggi di una ruota».
In questa ruota c’è tutta l’aleatorietà della vita medioevale, soprattutto di quella dei mercanti e dei nobili che avevano qualcosa da perdere. I contadini potevano sperare sempre di far parte, un giorno o l’altro, di quella statuina in pietra che lentamente sale, consapevoli che più in giù di così era difficile andare, anche se carestie, pestilenze, prebende e ruberie erano all’ordine del giorno.
Un ricordo popolare della Ruota della Fortuna permane ancor oggi in val Venosta nella tradizione delle ruote incendiate e lasciate andare giù dalle alture nel Solstizio d’estate.