Gli capitava ogni anno, in qualche momento di noia, quasi d’un tratto si accorgeva del mutamento dal ronzio dei motori nella valle sotto la sua baita. I turisti si sparpagliavano tra un albergo e un rifugio, li vedeva salire a piedi lungo i sentieri sotto il peso di poderosi zaini o distribuiti su coperte a scacchi nei prati poco lontano dal pendio che abitava.
Era la stagione calda, dove le giornate iniziano pigramente ad accorciarsi e i ragazzi hanno terminato le scuole. Li teneva d’occhio, i più giovani, capaci sempre di ficcarsi dove non avrebbero dovuto o combinare qualche guaio. Erano piccole orde che si formavano in pochi giorni, gruppi di età e provenienze diverse. Inizialmente si avventuravano timidamente, quasi annoiati da tutta quella libertà, disabituati a quegli spazi ma l’attrazione magnetica degli alti profili rocciosi, del ruscello, degli animali sapeva avrebbero presto avuto la meglio. Li distingueva in fretta quelli di città, quando nelle ore in cui non erano sottoposti a sorveglianza da parte dei genitori, si posavano come uno stormo di uccelli nell’abetaia sotto il suo pascolo organizzando qualche impresa, azzuffandosi per gioco o infastidendo gli animali con il loro bighellonare curioso e chiassoso. Differenti e rari erano i giovani abituati a quella vita, tutt’altro che a disagio con i loro corpi insudiciati dal turbinare come foglie mosse dal vento da un pendio all’altro, agili e superbi nell’arrampicarsi, pronti a rotolarsi sul terreno e gettarsi nel primo stagno, muovendosi di qua e di là senza smarrirsi, sussultando sopra ogni tesoro nascosto dalla terra.
Ma le settimane sarebbero trascorse e persino i più restii, tra i giovani che la montagna la frequentavano di rado, si sarebbero rapidamente inselvatichiti. Era capitato anche a lui da ragazzo, per il naturale bisogno di dimostrarsi all’altezza dei più temerari, in un’eterna lotta per l’affermazione. Sapeva che sarebbero presto saliti fino alla sua baita, in qualche modo egli stesso era pronto a recitare la sua parte, quella del vecchio burbero della montagna che un poco spaventa e un poco affascina. Ogni anno avveniva in modo simile: toccava ad uno dei baldanzosi dare prova agli altri di non temerlo, esponendosi in maniera sprezzante. E lui era pronto a ricacciarlo a valle con la coda tra le gambe.
Eppure, quell’anno, andò diversamente perché a salire tra le capre, solitario, fu un piccoletto timido ed impacciato: poco più di un bambino, gentile, curioso e testardo. Non si fece intimidire dal silenzio del vecchio, gli si incolló per un intero pomeriggio senza proferire parola, finché al tramonto non disse grazie e, saltellando, tornò allegro dai genitori. Il giorno dopo si ripeté la scena e, così, quello dopo ancora. Prese coraggio, aiutandolo nei piccoli lavori con la staccionata, la legna e dove poteva metter mano imitandolo. Dal canto suo, il burbero montanaro, fu capace di offrirgli pane e miele, accennando qualche breve conversazione. Si avvicinarono altri, il gruppetto saliva di numero e ronzava intorno a quella curiosa coppia mal assortita senza troppo rumore.
Quei piccoli branchi lo rallegravano, pur lasciandosi dietro una nostalgia per i vecchi tempi, lo aiutavano a sopportare il turismo selvaggio del fondo valle. Al tramonto i ragazzi sparivano per la discesa mentre l’uomo li osservava dalla finestra, dietro ai vecchi scuri di un verde sbiadito, e qualcosa gli stringeva sempre più il petto spigoloso mano a mano che quei giovani si inselvatichivano, mano a mano che si avvicinava la fine della stagione, delle stagioni. Ancora una volta tentava di ritrarre la forma del proprio tempo, il senso di una vita, forse di un’epoca attraverso quegli scuri, quei ragazzi, quegli addii.