La vittima del gioco d’azzardo patologico è colui che ne viene colpito o chi gli vive accanto? La domanda ha continuato a ronzarmi attorno per tutta la lettura di questo “A perdere. Un gioco senza amore” di Alessandra Limetti (Athesia, pag. 144, € 15). Ho provato a spegnere il fastidioso ronzio servendomi di un picchietto di buonismo, ma non mi è servito. Un rumore piccolo ma insopportabile che è partito fin dalla lettura dell’introduzione, a cura della stessa autrice, che subito dopo aver specificato che trattasi di narrazione figlia di molte storie vere, decide di spendere in partenza il sacro binomio del neoestremismo di marca femminista: donna-violenza, sottolineando come la violenza psicologica o economica sia molto diffusa – sottinteso, a danno della parte femminile del Creato – arrivando a citare perfino un recente caso di femminicidio, qui davvero fuori luogo.
Ad ogni buon conto, Alessandra Limetti descrive molto bene, con una certa maestria tecnica, la situazione iniziale, l’inizio di un amore, il matrimonio, i figli. Quindi l’insorgere di alcune stranezze comportamentali da parte di lui, che diventa evasivo, scostante e altro ancora. Che è accaduto? Ve lo spoilero io, perché nel libro non lo si dice mai chiaramente: lui si è ammalato, di quella patologia che secondo il Ministero della Sanità “produce effetti sulle relazioni sociali o sulla salute seriamente invalidanti”.
Lui è ammalato, santiddio!, eppure, i fatti sembrano non stare esattamente così. Lui è un farabutto, un perdigiorno, una vera canaglia, ecc. E l’amore? Dov’è finito l’amore? Quello di lui è bruciato dal vizio, ma quello di lei? “Un amore andrebbe sorvegliato sempre da una porta di casa. E richiamato cento volte in un minuto. E protetto con le mani dagli inganni”.
Insomma, a conti fatti, quello che mi è rimasto della lettura di questo libro è essenzialmente il racconto della violenza psicologica ai danni di una donna fragile e indifesa. Peccato che questa signora, anziché occuparsi seriamente della patologia del consorte, utilizzando almeno una parte di quel grande amore che dice di provare per lui, oppure – che sarebbe peggio – di andarsene di casa, dipinge l’uomo che ha sposato come un farabutto, un approfittatore, uno che scientemente fa quelo che fa, quasi con piglio da gangster. Non solo. Ella è preoccupata del fatto che “nel tentativo ostinato di salvare la relazione” (!) possa vivere il non riuscirci come un fallimento. Che seccatura, diamine!
Ho l’impressione, che se davvero questo romanzo è la risultante di una serie di testimonianze, forse le stesse avrebbero dovuto essere raccolte in maniera un po’ meno parziale e – se permettete – meno protofemminista. Un’occhiata al libro «Donne e disturbo da gioco d’azzardo, una prospettiva internazionale al femminile su trattamento e ricerca» di Fulvia Prever e Henrietta Bowden-Jones non guasterebbe.
Chiudo con un appello, una nota sul discorso “violenza psicologica”, che ormai – stando a quanto si legge in “A perdere” e un po’ dappertutto – pare venga universalmente agita solo ed esclusivamente da parte del maschio: mariti separati costretti all’indigenza?! Mariti di donne ludopate ridotti sul lastrico?! Uomini costretti ad un’assistenza psichiatrica dalle vessazioni della consorte?! Uomini stroncati da sospette, precoci forme tumorali?! Per molte rappresentanti dell’altro sesso voi manco esistete! Sappiatelo!