Orso: tra polemiche, colpevoli silenzi ed errori

Tra polemiche, colpevoli silenzi ed errori progettuali, l’animale orso si trova a subire sulla propria pelle – ed è proprio il caso di dirlo – la dimenticanza di quello che era. Ovvero l’antico e principale abitatore delle Alpi, colui che iniziando il letargo ogni anno l’11 novembre, giorno di San Martino, avvisava gli umani dell’approssimarsi della stagione invernale, per poi uscire dalla sua tana nella notte tra l’1 e il 2 febbraio per guardare la luna invernale, ritto sulle due zampe come un umano. Se l’argenteo astro era coperto, abbandonava il giaciglio preannunciando la prematura primavera. Se invece la luna era ben visibile, luna piena in un cielo stellato, ritornava a dormire per quaranta giorni – gli stessi giorni trascorsi da Gesù nel deserto – perché la primavera avrebbe tardato ad arrivare. In certe località francesi la festa della luce, Candelora, veniva chiamata “Candelorsa”.

Ricordiamo che a tutti gli animali la cui ricomparsa o uscita dal letargo è legata all’avvicinarsi della primavera è stato attribuito il ruolo di psicopompo: ci si affidava a loro per il viaggio delle anime. L’orso è dunque il conoscitore del mondo dei morti e delle potenze ctonie e il suo letargo può essere interpretato come uno stato di quasi-morte stagionale da cui l’animale risorge, diventando un vero e proprio vincitore sulla morte.

Per tutto questo, e per molto altro, in certe culture era tabù pronunciare il suo nome. Le tribù nordiche della Lapponia lo chiamavano con nomi indiretti, molte volte tratti da formule magiche: dorato re della foresta in Finlandia oppure, nel mondo slavo, goloso di miele o zampa di miele. Se un cacciatore pronunciava il suo vero nome, si risvegliavano la furia dell’animale e quella degli spiriti guardiani della foresta, con cui aveva uno strettissimo legame.

San Romedio: se l’orso si mangia il cavallo, non resta che cavalcare l’orso

Ecco allora che nei riti primaverili gli uomini si trasformano in orso e le processioni rituali si snodano tra boschi, prati, masi e chiese, accompagnate da torce accese, candele e falò propiziatori; sono processioni in cui la maschera la fa da padrona, mescolandosi e confondendosi con l’uomo selvatico, entrambi esseri-guida dei carnevali tradizionali. Tra le tante maschere, forse le più famose – e ancor oggi vissute – sono i Bären/gli Orsi: scendono in gruppo dal bosco su Thaur, un paese a pochi chilometri da Innsbruck, famoso per noi trentini perché diede i natali a san Romedio, un Herrensalz, un signore del sale (salgemma) nato nel castello avito degli Hohenwart. Sono accompagnati dai selvaggi conduttori i quali si intrattengono in balli scatenati ritualizzati ma che permangono al confine con il selvaggio. 

A partire dal medioevo la Chiesa portò avanti l’opera di demonizzazione dell’orso al fine di impossessarsi di una figura particolarmente significativa e ingombrante dell’immaginario folklorico precristiano, di un animale dalle caratteristiche umane – dalla struttura delle sue zampe simili alle nostre mani ad altri dettagli anatomici – al quale alcune leggende russe e finlandesi attribuiscono poteri magici perché appartiene alla stessa nostra famiglia in quanto si alza sulle zampe posteriori e guarda in alto, verso Dio contemplando il cielo, come fanno i fedeli. Il suo sonno-letargo invernale richiama inoltre quello del Salvatore in una grotta-sepolcro, in preda a una morte apparente per poi risorgere grandioso e terribile a ricordare la potenza di Dio. 

Jean de Cambrai, tomba del duca Jean de Berry

Il culto dell’orso aveva radici profonde. Nel bestiario medioevale tutti gli animali con il pelo o le piume scure erano, per una ragione o per l’altra, inquietanti e funesti. Si riteneva che avessero rapporti privilegiati con il mondo della notte e della morte e spesso gli animali bruni erano considerati peggiori di quelli neri, perché sembrano riunire in sé il colore delle tenebre e quello delle fiamme dell’inferno. Sulla tavolozza medioevale dei colori, il bruno si ritrova a metà strada tra il rosso e il nero. Non era un “vero” colore, un colore primario, bensì un colore che risultava dalla mescolanza di altri due. Perciò il colore bruno non poteva che essere privo di valore e dal punto di vista simbolico sembrava associare in sé gli aspetti negativi del rosso (collera, violenza, lussuria) e quelli del nero (peccato, oscurità, morte). E poi nella cultura medioevale cristiana il pelo “fa” la bestia. Eppure molti santi, soprattutto eremiti, si accompagnavano con lui. Le parole di san Romedio in cui si può leggere la volontà di soggiogare l’orso, toglierlo dalla bestialità per renderlo mansueto, sociale e integrato, sono lì a testimoniare questo rapporto: «animale di Dio, creatura sottoposta al suo giogo, ora sopporterai sulla tua testa il giogo della pazienza, in segno di penitenza sarai dedito al lavoro e, sottoposto a me, faticherai per un’occupazione a te inusuale, avrai acqua e cibo». Prendendo l’orso dalle mani del discepolo, Romedio, l’uomo di Dio, salì sulla bestia divenuta mansueta come un agnello e cavalcandola a passi lenti si diresse alla volta di Trento. 

Bolzano, Castel Roncolo, l’elmo cavalleresco con le zampe d’orso
Santa Gertrude val d’Ultimo affresco con orso su antico maso

L’eremita che doma l’orso costituì l’immagine archetipica del santo più forte della bestia più forte, che riesce a farsi obbedire dalla belva, e qualche volta aiutare, non con la forza fisica o delle armi bensì con quella della parola. Ciò successe con san Colombano, uno dei più antichi “santi con l’orso”, con il suo discepolo san Gallo, quindi con altri santi: Geroldo, Gisleno, Severino, Fiorenzo, Corbiniano, Lucano, Valentino, ecc. In Baviera e in Tirolo, nel VI secolo, c’è san Magno, compagno di san Colombano, il quale intrattiene rapporti con un orso. Sorpreso a rubare le mele nell’orto del santo, lo fa lavorare con sé nel frutteto e lo trasforma in giardiniere. È questa una delle strategie adottate dalla Chiesa per detronizzare l’orso: fargli perdere simbolicamente forza e superbia presentandolo come un animale di cui l’uomo non doveva avere paura e che poteva essere facilmente sconfitto. Non da qualsiasi uomo, è ovvio, non dai re, né dai guerrieri o dai semplici cacciatori, bensì dall’uomo esemplare, l’uomo di Dio (vir Dei), il modello perfetto della vita cristiana: il santo. 

Rimanendo nelle nostre terre, non possiamo dimenticare san Lugano, ricordato anche con il nome di Lucano, pellegrino e missionario. Visse come eremita ai tempi di Celestino I (422-432), in un periodo in cui nella Rezia imperava l’arianesimo. A lui si attribuisce, tra storia e leggenda, la cristianizzazione della val di Fiemme e del territorio bellunese. Le chiese che portano il suo nome sono molto antiche, come quella che incontriamo all’omonimo passo, punto di collegamento tra la valle dell’Adige e la val di Fiemme. Anche a lui l’orso mangiò il cavallo. Fu il fameio – il servitore – a scoprire il fatto. Ma non si perse d’animo: «orso, orso tù a morto lo mio cavallo e te comando da parte de lo eterno Iddio che la fu dita doveva portar lo cavallo, tu ai morto tu lo debbe portar tui e che tu ti fazi umile e venuto fuori dall’osteria andete solo lo dito orso e fece che lo fameio lo mese lo freno e la sella del suo cavallo e montò tosto per virtù de Iddio facendose prima lo segno della Santa Croce e cavalcaron al suo viazo […] Et continuando lo sua viazo ogni uno che vedeva calvacar quello orso prendeva grandissima admirazione vedendo quello orso sì umiliato» (testo presso la biblioteca “Muratori” di Cavalese, datato 1 ottobre 1512, steso dal notaio ser Pietro Paolo Diolai di Belluno).

L’orso, sacro ad Artemide, dea greca protettrice degli animali e della caccia, rappresentata come orsa insieme alle sue sacerdotesse, chiamate altresì orsette, in Tirolo fu posto sotto la protezione della Vergine. Forse per far dimenticare la figura di qualche dea retica con le sembianze di un’orsa, come la celtica Arduinna, la divinità cacciatrice, dea degli orsi, nume tutelare della foresta delle Ardenne.

Di questo ci si dimentica. Come ci si è dimenticati delle cancellazioni dall’araldica stessa della presenza ingombrante dell’orso. Se visitate il cimitero di Bressanone o quello di Novacella, potete ancora vedere sulle antiche lastre tombali delle famiglie blasonate della zona la presenza delle zampe dell’orso, simbolo di forza, eroismo, affabilità e pazienza, animale totemico che simboleggia il legame tra cielo e terra. Lentamente, ma inesorabilmente, la Chiesa mise lo zampino anche nell’araldica, le zampe di orso scomparvero e vennero sostituite da un animale esotico, talmente lontano dalle nostre terre da non provocare strane contaminazioni: il leone, il re degli animali, di mesopotamica memoria.

Carnevale 1926 a Nassereith presso Innsbruck con l’orso prigioniero
Bolzano, chiesa dell’Ordine Teutonico o di San Giorgio, tombe con l’orso araldico
Condividi l'articolo su:
Avatar photo

Pubblicato da Fiorenzo Degasperi

Fiorenzo Degasperi vive e lavora a Borgo Sacco, sulle rive del fiume Adige. Fin da piccolo è stato catturato dalla “curiosità” e dal demone della lettura, che l’hanno spinto a viaggiare per valli, villaggi e continenti alla ricerca di luoghi che abbiano per lui un senso: bastano un graffito, un volto, una scultura o un tempio per catapultarlo in paesi dietro casa oppure in deserti, foreste e architetture esotiche. I suoi cammini attraversano l’arte, il paesaggio mitologico e la geografia sacra con un unico obiettivo: raccontare ciò che vede e sente tentando di ricucire lo strappo tra uomo e natura, tra terra e cielo, immergendosi nel folklore, nei miti e nelle leggende. fiorenzo.degasperi4@gmail.com