Se niente cambiasse mai, la vita sarebbe assurda

Può suonare strano un appello ad “abbassare le armi” in un’epoca che sembra sempre più vocata ai conflitti, e non parlo solo delle guerre vere, tragedie immani da cui non riusciamo a liberarci, con i loro schemi al fondo così infantili (“è stato lui, ha iniziato prima lui”). Parlo anche del clima competitivo, aggressivo e conflittuale che regna nel mondo della politica, del lavoro, dell’economia, persino a volte della scuola o dell’arte. 

Qui e là però si colgono anche appelli o suggestioni di senso contrario. È di questi giorni ad esempio la riflessione che Alessandro Baricco ha affidato al web, spezzando una lancia in favore del “lasciare andare”, anche le cose che abbiamo più care, gli affetti, le amicizie, superando il bisogno (umanissimo, peraltro) di trattenere, conservare, possedere. Lottare.

Il nuovo film di Wim Wenders, “Perfect Days”, ci presenta un personaggio che apprezza la vita nei suoi aspetti più ordinari, persino umili: è infatti un addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo, che sono in verità costruzioni di design. Un uomo le cui giornate sono scandite dalla routine del lavoro, del pranzo “al sacco” in un parco, della cena sempre nello stesso posto (cambia solo nei giorni festivi), e così via. La felicità passa per la capacità di alzare tutte le mattine lo sguardo al cielo, per l’ascolto di musica rock 60-80, rigorosamente in cassetta, per le letture serali, per l’osservanza di tanti piccoli rituali. Anche se, attenzione, questo non vuol dire accettare tutto ciò che la vita ci mette di fronte. La nostra serenità può essere sempre turbata da un evento inaspettato, che scompiglia l’ordine delle giornate, che porta disordine o dolore, e a cui opponiamo una necessaria, comprensibile resistenza. Del resto, dice il protagonista del film, se niente cambiasse mai, la vita sarebbe assurda. In “Perfect days” (“giorni perfetti”, titolo che cita il celebre pezzo di Lou Reed) ho ritrovato il Wenders che amo di più: quello che teorizzava i film senza trama. E mi è sembrato di cogliere anche un invito, del resto piuttosto esplicito, a vivere “qui e adesso”, come recitano i maestri Zen. L’invito a vivere il presente è sempre problematico. Le nostre vite si basano sulla capacità di fare progetti, di pianificare, di prevedere, o prevenire. E questo non da oggi, ma perlomeno dalla “rivoluzione del Neolitico”, cioè da quando l’uomo si è messo a coltivare la terra e ad allevare gli animali, attività che per loro stessa natura si rivolgono al futuro. Come avrebbero potuto svilupparsi le civiltà agricole altrimenti che con la capacità di osservare lo scorrere del tempo, l’alternarsi delle stagioni, il ripresentarsi degli stessi fenomeni naturali (fioritura, maturazione, piogge e così via)? E però, nei cicli che ritornano, che si ripresentano (quasi) sempre uguali, vediamo in filigrana quella regolarità di cui parla il film di Wenders, lo sgocciolare delle ore e dei giorni, così densi da sembrare quasi fermi, immobili. Qui e adesso, appunto. Tutto ciò assomiglia al concetto di “Eterno Ritorno” di Nietzsche? Non so. Quel concetto è così misterioso, così “orientale”. Nietzsche però ha detto anche un’altra cosa: in Ecce Homo invita a liberarsi dal risentimento, dal desiderio di rivalsa, di vendetta, forse persino di giustizia, ha detto ancora Baricco, formulando un pensiero davvero non-conformista, perché non c’è cosa che consideriamo più fondata e necessaria del desiderio di giustizia. Può essere una risposta? Forse. In certe circostanze. Se consideriamo la pace un bene di ordine superiore a ciò che sacrificheremmo per essa.

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Pubblicato da Marco Pontoni

Bolzanino di nascita, trentino d’adozione, cittadino del mondo per vocazione. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, giornalista dai primi anni 90. Amori dichiarati: letteratura, viaggi, la vita interiore. Ha pubblicato il romanzo "Music Box" e la raccolta di racconti "Vengo via con te", ha vinto il Frontiere Grenzen ed è stato finalista al premio Calvino. Ma il meglio deve ancora venire.