Il 7 di fiori

Li conosco dai tempi della scuola, da piccoli le amicizie nascono spontanee. Non occorre premeditare come presentarsi, non serve altro che sorridere e farsi avanti. 
Ricordo il momento esatto, un pomeriggio sonnacchioso di fine ottobre, l’ora di ginnastica si svolgeva all’aperto per permetterci di approfittare della giornata ancora tiepida. Il maestro, alto e calvo, serissimo sotto gli occhiali dalla montatura fine e tondeggiante, ci aveva diviso in piccoli gruppi. Io ero finita con Aldo, Marco, Cristina e Denise e in un attimo avevamo improvvisato una sfida a “strega comanda color”. Marco urlava i colori più strani: quelli che noi avremmo dovuto trovare all’interno del cortile per non rischiare di essere eliminati. Non era stato facile evocare il color verde erba in quel luogo in cui il grigio, in ogni sfumatura, sembrava l’unico possibile. Eppure non ci eravamo dati per vinti e anzi avevamo continuato a giocare per tutta la lezione, divertendoci come matti e mettendo le basi per un’amicizia che sarebbe continuata anche negli anni successivi.

Abbiamo affrontato insieme le prime cotte con le inevitabili delusioni, le crisi in famiglia,le incertezze sul futuro. Qualunque fosse la difficoltà, fornivamo quel supporto genuino e autentico di cui solo le amicizie di vecchia data sono dotate.

Ora siamo cresciuti, siamo donne e uomini, ciascuno con la propria vita e i relativi problemi dello stare al mondo. Ci vediamo meno di quanto vorremmo in realtà, qualche aperitivo nel fine settimana, molte telefonate, soprattutto femminili e poi la nostra immancabile trasferta a Venezia, per il carnevale.
L’idea era partita da Aldo che frequentava lì l’università. Ci aveva invitati tutti nel suo appartamento umidiccio e bohémienne e quel ritrovo festante e un po’ misterioso era diventato l’appuntamento fisso che attendevamo ogni volta con rinnovata gioia.
Rappresentava una parentesi rispetto alla vita quotidiana, l’occasione per riscoprire la nostra amicizia e quella parte giocosa che noi esseri umani, chissà perché, siamo soliti silenziare. Uno svago innocuo in cui ciascuno di noi poteva reinventarsi, indossando maschere e costumi, interpretando una versione diversa di sé. Per poi ritornare nei ranghi e alla propria routine.

All’inizio non ero molto disposta a lasciarmi andare, del resto non amavo quel periodo dell’anno in cui “per forza” bisogna essere festanti. Trovavo sciocco il ricorrere al travestimento anche in età adulta, stucchevole a dir poco. Eppure, la prima volta che Aldo ci aveva portato in una bottega di antichi costumi teatrali, il mio cuore aveva naturalmente iniziato a galoppare. Armadi traboccanti di tessuti colorati e preziosi, sapientemente ricamati, appesi in attesa di essere scelti. Parrucche impomatate e sistemate su ripiani altissimi, calzature di epoche passate, alcune con tacchi vertiginosi, altre piene di lacci. Corsetti, ventagli, guanti di raso e pizzo, alcuni addirittura lunghi fino al gomito. E le maschere! Niente plastica là dentro, ma veri e propri manufatti artistici, con visi di porcellana e scintillanti dettagli di lustrini e piume. 
L’incanto era nato così, indossando uno scialle a fiori di raso rosso, battendo i tacchi al ritmo di un immaginario flamenco, portando una maschera sugli occhi pieni di entusiasmo.
Cambiare identità, interpretare un ruolo, giocare. Sembra impossibile, ma grazie a questi momenti condivisi con i miei amici, ho imparato chi sono veramente. Come disse qualcuno: “Datemi una maschera e vi svelerò chi sono in realtà”. 
È capitato lo stesso a me, con un episodio dolcissimo, vagamente onirico, tanto da confondersi nella mia mente e farmi dubitare che sia accaduto sul serio. Ma non mi interessa analizzare troppo i dettagli: la sensazione mi accompagna costantemente e ancora oggi mi percorre la pelle causando brividi quasi elettrici.

Eravamo lì a rallegrarci l’anima. Metaforicamente ci assaggiavamo, voluttuosi, in un gioco di ruoli, senza però morderci mai. Giocavamo con le maschere in un ballo colorato che sapeva di zucchero a velo, perdendo i nostri rigidi contorni in risate tintinnanti. 
Poco prima del tramonto scendemmo in strada, mescolandoci all’euforia con sguardi ammiccanti, costumi lucenti, tanta musica e stelle filanti. 
Tra la folla qualcosa mi incuriosì. Mi parve di distinguere una figura vestita di nero, che si aggirava lenta, leggera, come uno spirito proveniente da un’altra epoca. Lo seguii mentre tagliava in due la folla mascherata, come una nave nel mare in bonaccia. Conclusa la traversata, la figura proseguiva per la sua strada senza che nessuno gli dedicasse la pur minima attenzione. Di tanto in tanto qualche coriandolo finiva sul suo tabarro, lui lo soffiava via o lo spazzolava con una mano, malcelando una profonda indifferenza. La figura avanzava e io non potevo fare a meno di osservarla, incantata. 
Mi chiesi come mai il carnevale sembrava non riguardarlo in alcun modo. A pochi passi qualcuno corteggiava Colombina, facendo un elegante inchino, ma la figura non prestava attenzione, proseguendo nel suo tragitto. Nessuna maschera gli celava il volto. Quando fu alla mia altezza, trovai il coraggio di sorridergli abbassando leggermente il mento. Si avvicinò. In un’improvvisa atmosfera di sogno, l’uomo vestito di nero mi avvolse nel suo mantello, dandomi un lieve bacio sulla fronte quindi uno un po’ più audace sul collo, appena dietro l’orecchio. Il suo profumo evocava aromi orientali di luoghi sconosciuti e lontanissimi, una miscela soave da cui mi lasciai volentieri accarezzare, mentre l’eco di tamburi battenti e dello spensierato chiacchiericcio si faceva man mano sempre più lontano, indistinto…
Mi sovvenne una curiosità che Aldo mi aveva raccontato una sera di qualche tempo prima. Nel Settecento chi non voleva prendere parte ai festeggiamenti a lungo protratti, poteva evitare di mascherarsi semplicemente infilando una carta da gioco nel cappello.
Non scambiammo molte parole, lui mi cinse la vita e mi attirò dolcemente a sé in un abbraccio vibrante di passione. I suoi occhi sorrisero e le sue labbra si appoggiarono delicatamente sulle mie. Io ebbi la sensazione di non essere in compagnia di un estraneo, i nostri cuori battevano allo stesso ritmo e senza alcuna remora lo seguì appena lui mi prese per mano facendosi largo tra la folla. Non sapevo dove mi avrebbe condotta e non mi importava. Desideravo solamente che quel momento durasse per sempre

Ma anche il carnevale finirà, la festa diventerà inevitabilmente un mero ricordo e io sarò di nuovo sola.
Tornerò alla mia vita, avrò tolto il trucco, sciolto i capelli e riposto il costume.
Ma custodirò per lungo tempo l’arrivederci di quell’uomo misterioso: la carta da gioco. Un 7 di fiori.

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Pubblicato da Mariavittoria Keller

Ha un’innata passione per la scrittura che cerca di declinare sia dal punto di vista professionale (ideazione di testi promozionali, contenuti web, corsi creativi) che artistico (performance mulltimediali, esposizioni, reading…) conciliandola con tutto ciò che è espressione dell’animo umano. Non ama parlare di sé se non attraverso quello che scrive: “Mi sono sempre descritta come una persona fragile. Timida, silenziosa, sognatrice. Un'osservatrice attenta della realtà e una appassionata visitatrice di sogni. Scrivo per provare a fermare in un attimo le emozioni, per riviverle, per regalarle a chi avrà la cura di dedicarci uno sguardo. Perchè credo fortemente che il valore delle cose sia svelato nei dettagli e nel tempo che sappiamo concedere. Così mi incaglio spesso nei giorni, troppo veloci e spesso disattenti verso chi preferisce stare in disparte. Amo la natura selvaggia, libera, perchè sento di esserlo anch'io. Gusto le cose semplici, che sorridono, che condivido con poche, pochissime preziose persone. Credo nell'Amore come sentimento Universale, anche se ho ancora qualche difficoltà con il sentimento, quando mi guarda. Amo il raccoglimento, la lettura e la musica, non ho paura della solitudine quando non è imposta, ma è una scelta. Vivo imparando, non dimenticando che la felicità è negli occhi di chi guarda”. Info: vikyx79@gmail.com