Pinochet, un vampiro di 250 anni

Torna a raccontare la dittatura cilena di Pinochet, Pablo Larraìn, con il suo ultimo film, vincitore del Premio Osella per la Miglior Sceneggiatura all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, e da alcune settimane disponibile sulla piattaforma Netflix. E lo fa con un horror satirico, che porta nel cuore i grandi maestri degli esordi della settima arte.

Dopo essersi reso noto al grande pubblico con i suoi meravigliosi ritratti al femminile – “Jackie” nel 2016, “Ema” nel 2019 e ancora “Spencer” nel 2021 – il regista cileno torna con “El Conde” a raccontare la storia del suo Paese. Se in “Post Mortem” del 2010 e in “No. I giorni dell’arcobaleno” del 2012, però, la dittatura faceva da sfondo, da quadro nel quale calare vicende di personaggi altri, con il suo ultimo lungometraggio Larraìn sceglie di affrontarla di petto, direttamente, sfacciatamente. “El Conde”, il Conte, altro non è che una versione vampiresca di 250 anni di Augusto Pinochet – o Claude Pinoche, nelle primissime origini francesi. Mai veramente morto, nonostante la presenza di una salma ai funerali di Stato, Pinochet si è pertanto ritirato a vita di campagna in compagnia della moglie Lucia e del maggiordomo Fyodor, concedendosi solo occasionali uscite per sorvolare la città di Santiago e per cacciare: più spietato del vampiro medio, il Conte si nutre non di sangue, bensì di frullati di cuore, possibilmente ancora pulsante, possibilmente non di provenienza sudamericana, non troppo di suo gusto. 

Figlio di varie rivoluzioni – di cui colleziona i cimeli, una su tutte la testa di Maria Antonietta -, “El Conde” diventa così una tutt’altro che velata metafora delle crudeltà del dittatore che scalzò Allende, dei suoi crimini contro l’umanità, degli omicidi mai imputati e dei desaparecidos, facendosi il film più politico della filmografia di Larraìn. Lungometraggio grottesco, narrato come una favola horror da una suadente voce off, “El Conde” trova le sue radici – dichiaratissime – nel genere alle origini del cinema, da Dreyer a Murnau. Impreziosito da un perfetto bianco e nero e da una serie di battute satiriche – basti pensare all’ossessione del Conte per quello che considera il suo solo grande sbaglio, un errore di contabilità nella gestione del patrimonio, l’ultimo film del regista cileno è uno di quei film che, per il proprio valore, non sarà facile dimenticare. Eppure, non sarà neppure ricordato come il suo capolavoro: dopo i primi 40 minuti di visione, capita la grande, sagacissima metafora, lo slancio si smorza e si finisce per sentire la mancanza di quei ritratti così meravigliosi a cui ci aveva abituato negli ultimi anni.

Un gioco in bianco e nero, tra realtà e sogno

Sono innumerevoli i rimandi al cinema – horror e non solo – delle origini in “El Conde” di Pablo Larraìn: se le scene con protagonista la giovane suora (Paula Luchsinger) richiamano immediatamente “La passione di Giovanna d’Arco” di Carl Theodor Dreyer (1928), è tra “Nosferatu il vampiro” di Friedrich Wilhelm Murnau (1922) e “Vampyr – Il vampiro” ancora del regista danese, che assume la sua connotazione di genere. Film del 1932, quest’ultimo, è da considerarsi imperdibile pietra miliare del cinema horror, tutt’oggi ancora capace di affascinare e creare suspense, nel suo gioco tra realtà e sogno. A richiamarne la memoria, in “El Conde”, in particolare le ambientazioni: dai toni del grigio, agli spazi stretti e claustrofobici di stanzette e corridoi. 

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Pubblicato da Katia Dell'Eva

Laureata in Arti dello spettacolo prima, e in Giornalismo poi, nel quotidiano si destreggia tra cronaca e comunicazione, sognando d’indossare un Fedora col cartellino “Press” come nelle vecchie pellicole. Ogni volta in cui è possibile, fugge a fantasticare, piangere e ridere nel buio di una sala cinematografica. Spassionati amori: Marcello Mastroianni, la new wave romena e i blockbuster anni ‘80.