Ci sono passioni che non muoiono mai, attraversano i decenni con la forza di un uragano, imperturbabili, immuni a qualsiasi evento, tragedia, epidemia, gioie e dolori del genere umano. Una passione è per sempre per una ragione, soprattutto: perché è strettamente interconnessa con la verità e con la Cultura con la C maiuscola, così come la intendeva il grande Claude Lévi-Strauss. Ovvero il modo in cui la funzione ordinatrice dell’intelletto dà forma e significato alla materia, facendo tutt’uno con l’esperienza.
Siamo a Padova, nello splendido Palazzo della Ragione che, fino al 30 giugno, ospita un’esposizione che fugge di fronte a qualsiasi aggettivo. Così per potervela raccontare abbiamo escogitato di raccontarvi dell’uomo che vi sta dietro: Umberto Knycz. Perché forma e significato della materia sono legati all’esperienza, ricordate?!
Tutto comincia nel 1969, quando un architetto francese consiglia a Umberto Knycz, appassionato viaggiatore trentino, di andare a dare un’occhiata nel Mali, dove ci sarebbe questo popolo interessante per la capacità di lavorazione del legno e del bronzo. Umberto prende la Land Rover e parte: da Trento, attraverso la Tunisia, seguendo il percorso del fiume Niger, dopo 15mila chilometri giunge in quello che lui definisce ancora oggi come “il posto più bello del mondo”. Siamo nella zona della falesia di Bandiagara. I Dogon sono allora uno dei popoli meno conosciuti del Pianeta.
Con la curiosità del viaggiatore e la perizia dell’antropologo, Umberto si approccia a loro, facendo subito amicizia con il capo villaggio. È l’inizio di una storia di amore tra un uomo e un popolo, un amore “culturale” nel vero senso latino del termine (còlere, coltivare), proprio perché con il passare degli anni Umberto continua ad avere cura e ad onorare questo incontro, con ripetuti viaggi e studi, anche sui numerosi reperti che si accumulano nella casa di San Donà a Trento.
Cinquant’anni dopo, Umberto Knycz, in collaborazione con l’organizzazione di volontariato “Progetto Dogon” e con il sostegno della Fondazione Cariparo, ha deciso di condividere la gioia e l’incanto che questi oggetti sanno suscitare con la collettività, organizzando – con la collaborazione di Paolo Mene, Elio Armano, Gianfranco Rondello, Franco Battistotti e Loris Tasin (anche autore delle fotografie) e l’Assessore Andrea Colasio – una mostra appunto a Padova, Palazzo della Ragione. “Padova nel Dogon. Il Dogon a Padova” è una mostra articolata in due chiavi di lettura compenetrate tra loro: la storia emblematica di Progetto Dogon Odv, l’associazione padovana che da oltre 15 anni aiuta la popolazione Dogon nel Mali, con la documentazione dei numerosissimi interventi realizzati sul posto; allo stesso tempo è un’inedita rassegna di sculture e oggetti d’uso di eccezionale bellezza, espressione della antichissima cultura del popolo Dogon, messi a disposizione da Knycz.
La “doppia mostra” vuole dunque essere un momento di riflessione e di consapevolezza, unendo insieme cultura, solidarietà e volontariato e si rivolge in particolare, anche con incontri specifici, ai giovani e alla scuola. Questa mostra è anche l’evento conclusivo dell’anno di Padova Capitale Europea del Volontariato.
La mostra è stata realizzata con il patrocinio del Comune di Padova e in collaborazione con gli Assessorati alla Cultura e alle Politiche Educative e Scolastiche del Comune.
FELICEMENTE INCORROTTI DALLA MODERNITÀ
“La zona delle falesie è piuttosto distante dalle grandi arterie che collegano il sud al nord del Mali. Anche per questo motivo i Dogon sono arrivati al 2014 ancora incorrotti dalla modernità”.
Ma come si è arrivati all’idea di una mostra? “Quando Silvia Ercoli, responsabile dell’Alto Consiglio del Mali, qualche anno fa vide i miei “tesori”, rimase letteralmente sconvolta dalla loro bellezza; così mi introdusse a Vincent Togo, un importante fisico nucleare che ha la ventura di essere figlio del capo villaggio dei Dogon”.
Ma cerchiamo di raccontare allora qualcosa di questa esposizione e di questo popolo misterioso che pur non conoscendo la scrittura riesce a comunicare tante emozioni e sentimenti. Intanto, il villaggio, che vediamo nei superotto girati da Umberto all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso. È costruito seguendo lo schema di un corpo umano: la testa è costituita dal toguna, la casa della parola, luogo dal soffitto bassissimo in cui gli anziani si ritrovano per deliberare sulle questioni più importanti. Perché il soffitto è basso? Beh, per imporre a tutti di rimanere seduti, un modo per impedire alla discussione di degenerare.
L’esposizione ha una sezione dedicata alle porte in legno delle abitazioni Dogon. Non semplici assi, ma vere opere d’arte colme di messaggi simbolici. Vi sono scolpite numerose figure che rappresentano gli avi della famiglia. Statue e bassorilievi ricordano le grandi sculture dell’isola di Pasqua, ma anche i volti oblunghi di Amedeo Modigliani o i lineamenti asimmetrici di Pablo Picasso, segno che l’arte unifica i popoli e il tempo.
Onnipresente la rappresentazione della maternità e quindi della fecondità. Anche per i Dogon l’affermazione sociale si misura con il numero dei figli. Solo la prole dà un senso all’esistenza.
Ma poi ci sono le maschere, i monili e alcuni utensili come il telaio. Non c’è nessun oggetto che non rifletta il fascino dell’Africa, di un’esistenza incontaminata e a stretta connessione con i ritmi della Natura, madre e matrigna.
Il pensiero che in un fastoso palazzo del XIII secolo vi sia un piccolo angolo di Africa è inebriante. Grazie all’instancabile lavoro di ricerca di Umberto Knycz anche noi smartphone-dipendenti possiamo dunque cogliere concetti spesso dimenticati come l’oggettività della bellezza, la trascendenza dei cicli naturali e l’universalità dell’essere umano, troppe volte ingabbiati in ruoli che di umano hanno poco o niente.