A qualche settimana dalla sua scomparsa, vorrei tornare sulla figura di un imprenditore che ha fatto parlare di sé anche come politico, oltre che per le sue vicende giudiziarie, ma che vorrei ricondurre al suo ruolo di uomo d’affari, un uomo d’affari di successo che ha incarnato uno dei tanti aspetti del sogno americano, del capitalismo americano.
Il capitalismo, si sa, è un’espressione del liberalismo, ideale che si afferma nel 7-800 e che poggia su alcuni assunti fondamentali: il diritto di ogni uomo alla libertà di pensiero e di azione, il diritto alla proprietà, che è un’estensione di quella libertà, il diritto ad affermarsi (anche economicamente) nel mondo, a prescindere dalle gerarchie già esistenti. Certo, sappiamo che il capitalismo può coesistere anche con sistemi politici non-liberali: ad esempio con il fascismo, che non lo ha messo in discussione, anzi, semmai ci è andato a braccetto, ma anche con altre forme di autoritarismo, come quello della Prussia di Bismarck, o oggi della Cina comunista. Nella sua forma più pura però il capitalismo si è imposto in America, perché è lì che si è realizzato l’ideale dell’uomo che si fa da sé, indipendentemente dalle sue origini. Come il Grande Gatsby dell’omonimo romanzo. In Europa non è stato così semplice. L’ordine sociale affondava le sue radici nelle gerarchie medioevali. Il peso delle aristocrazie, civili o religiose, dei casati, dell’eredità familiare, dei Gattopardi, è stato molto più determinante e ha inevitabilmente condizionato l’evoluzione del libero mercato, il supremo ring del capitalismo.
Qual è in Italia l’imprenditore che ha incarnato una concezione ancora pienamente europea, cioè in fin dei conti aristocratica, del capitalismo? Gianni Agnelli. Agnelli l’erede di una dinastia imprenditoriale con radici nel ‘700, industriale piemontese. Agnelli uomo di mondo, colto, raffinato, carismatico. Agnelli tombeur des femmes (e quali femmes!). Agnelli che, qualsiasi cosa dicesse, anche una banalità, veniva comunque ascoltato.
Ma l’imprenditore che sto ricordando qui era di un’altra specie. È stato l’imprenditore del sogno americano, quello che molti italiani (non voglio dire tutti) portano con sé nel proprio zaino, come il bastone da maresciallo di napoleonica memoria. Di estrazione piccolo-borghese, si è fatto strada a sorrisi e gomitate, vendendo o comperando, con estrema spregiudicatezza, anche il Colosseo, se necessario, o qualcosa di simile. Al tempo stesso ha guardato avanti, al futuro, quello della televisione commerciale, ad esempio, oltre la Rai di Stato e dei partiti. È stato un guascone (la definizione che usò per se stesso dopo un celebre baciamano, nientemeno che al colonnello Gheddafi), un liberale amico di Putin (un ossimoro), un seduttore di ragazzine dell’hinterland, aspiranti veline. Quanto assomiglia la sua vicenda a quella di tanti imprenditori americani di successo, cresciuti in famiglie di emigrati dall’Europa centrale, o magari dalla Baviera, come i Lehmann? Capaci di cogliere le occasioni al volo, di fare di necessità virtù, di piegare anche la politica ai propri interessi? Parecchio.
Poi, certo, sappiamo che il sogno americano è solo un sogno, o perlomeno che “uno su mille ce la fa”, e gli altri rimangono giù nella stiva a remare. Ma per tanti italiani, gli italiani eternamente scettici nei confronti della politica, eternamente e visceralmente anticomunisti, eternamente desiderosi di conquistarsi un posticino al sole, aggirando le regole, se necessario (ma non infrangendole a viso aperto, quello lo fanno i rivoluzionari, o gli utopisti) tanto è bastato. Nel 1994 una grossa fetta di italiani si è innamorata di questo imprenditore, del suo sogno popolare, fondato non su un partito ma su dei club, in cui politica e affari si mescolavano. Anche del suo kitsch. Rimanendogli fedele fin (quasi) alla fine. E adesso?