20 anni di Facebook, 20 anni di disumanizzazione

Era il 2004 quando faceva la sua comparsa il “re” dei social-network, quello che ha rivoluzionato il modo con cui usiamo internet, con cui interagiamo gli uni con gli altri, con cui ci informiamo e ci disinformiamo, con cui facciamo politica. Perché tutti su Facebook fanno politica. La fanno gli attivisti delle cause più disparate, ma anche e soprattutto gli utenti apparentemente disinteressati. Dopo Facebook, fare politica significa lasciare un commento sprezzante e derisorio in calce ad una foto oppure condividere una notizia priva di verifiche autorevoli. Ora, non si vuole certo sostenere che prima di Facebook il mondo fosse un paradiso terrestre in cui dominavano la verità e la ragione. I social-network hanno dei meriti innegabili: aver ridotto le distanze tra le persone ed aver contribuito a dar voce a chi restava inascoltato. Però se certe voci restavano inascoltate un motivo c’era: non era solo censura, era un po’ di sana igiene. Una sintesi efficace l’ho trovata proprio in calce ad un post che commentava il ventennale di Facebook, dove un utente ha scritto: «Il mondo pre-Facebook non era l’Eden, ma almeno non davamo un megafono ai mentecatti». Lasciamo da parte che i “mentecatti” sono sempre “gli altri” e mai “noi stessi”. È però vero che di certe idee non si sentiva il bisogno: teorie del complotto di ogni sorta, apologia della violenza, polarizzazione sfrenata, squadrismo digitale dove parole e immagini sono usate come manganelli. E questo senza ausilio dell’intelligenza artificiale. Tutto nasce da un equivoco di fondo: abbiamo frainteso Facebook come fosse uno spazio pubblico, l’equivalente di una piazza in cui ciascuno si alza su uno sgabello ed esprime la sua libera opinione. Ma Facebook da sempre è una “monarchia privata”, un’azienda che fa i suoi affari alla ricerca di profitto e rilevanza. E per questa sua natura, Facebook premia i contenuti che generano più traffico. Purtroppo, i contenuti che generano la quantità maggiore di traffico sono quelli che generano le emozioni più viscerali. Tra queste, a funzionare molto bene sono odio e rabbia. Colpa di Zuckerberg che non ha monitorato, che ci ha rubato i dati e ha allestito la più grande macchina del fango della storia? Certo. Ma è anche colpa nostra: ad ogni click carico d’odio o di zelo purificatore rinunciamo ad un pezzo della nostra umanità, pronti a deridere l’altro, senza riconoscerne l’intimità dietro una foto profilo.

Condividi l'articolo su:
Avatar photo

Pubblicato da Fabio Peterlongo

Nato nel 1987, dal 2012 è giornalista pubblicista. Nel 2013 si laurea in Filosofia all'Università di Trento con una tesi sull'ecologismo sociale americano. Oltre alla scrittura giornalistica, la sua grande passione è la scrittura narrativa. È conduttore radiofonico e dal 2014 fa parte della squadra di Radio Dolomiti. Cronista per il quotidiano Trentino dal 2016, collabora con Trentinomese dal 2017 Nutre particolare interesse verso il giornalismo politico e i temi della sostenibilità ambientale. Appassionato lettore di saggi storici sul Risorgimento e delle opere di Italo Calvino.