Angela Demattè: “Conoscere se stessi e il mondo”

Nata a Trento e cresciuta a Vigolo Vattaro, Angela Dematté aveva sei anni quando ha incontrato il teatro e se ne è innamorata. Esploratrice del Terzo Teatro di Eugenio Barba, attrice diplomata all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, drammaturga vincitrice del 50° Premio Riccione, Dematté ha attraversato le possibilità che il teatro offre per indagare l’essere umano permettendo di “tenere unite le parti” che compongono ognuno di noi: il pensiero e il corpo, le bellezze e le miserie, il buio e la luce. 

Come è iniziata la tua storia con il teatro? 

La mia storia d’amore con il teatro è iniziata da bambina: ricordo una festa del teatro ragazzi con compagnie da tutta Italia. Per tutta l’infanzia e l’adolescenza il teatro è stata una sorta di fissazione. Ne sapevo poco, cercavo di attingere dove potevo, con un metodo del tutto artigianale. Poi ho deciso di trasferirmi a Milano, dove ho fatto prima l’università immergendomi nel Terzo Teatro nella convinzione, diffusa negli anni ‘90, che una formazione accademica fosse troppo impostata. Il desiderio di una formazione più classica è arrivato più avanti e così mi sono diplomata all’Accademia dei Filodrammatici di Milano e, dopo qualche esperienza come attrice, ho fatto dei corsi sulla drammaturgia contemporanea. A 27 anni ho scritto il mio primo testo, Avevo un bel pallone rosso, un testo fortunato che ha vinto subito un premio importante, il Premio Riccione. Racconta della relazione tra Margherita Cagol, leader delle Brigate Rosse, e suo padre. Credo di aver intercettato un tema universale, che supera anche quello storico-culturale degli anni di piombo: questo lavoro parla prima di tutto del rapporto con le nostre amate e al tempo stesso odiate origini, un tema che continua ad essere attuale.

Quali sono i momenti, i turning point della tua carriera?

Non so se possiamo parlare di momenti, credo si tratti più di un processo. Sicuramente il testo su Cagol ha segnato un momento importante, ma la mia carriera arriva da un susseguirsi di scelte e di cose che sono accadute.

A 19 anni facevo l’attrice di lavoro. Mi pagavano per questo, ma ne avevo pudore perché non sentivo di avere la giusta formazione per definirmi tale. Ho deciso di formarmi, poi il lavoro si è unito alla vita privata: ho sposato un regista quando non era ancora un regista e invece ora entrambi viviamo di teatro. Ho scritto un testo e lì ho iniziato un lavoro da drammaturga con cui ho avuto più successo che con quello di attrice e va bene così: ho tre figli, il lavoro di scrittura è un lavoro che mi permette di stare vicino alla mia famiglia più che se fossi in tournée.

Attrice, drammaturga: qual è il tuo vero amore?

Non saprei, va molto per periodi della mia vita. Ultimamente per esempio sono molte le richieste e le commissioni come autrice, ma ho grande desiderio di andare in scena, anche per godermela: un tempo ero molto emotiva, adesso me la caverei meglio. 

Non saprei privilegiare una cosa o l’altra, probabilmente questo per me è un buon momento, mi sento fortunata, sono felice di quello che faccio. Riesco a non avere invidia né per le attrici né per le drammaturghe. Ma non è sempre stato così. Ora ho una stabilità, credo di aver trovato la mia voce e per questo riesco ad apprezzare davvero anche il lavoro di altre persone. Credo serva una approfondita ricerca su se stessi per stare bene, per essere felici. 

Con il regista Carmelo Rifici

Cosa ti piace del teatro? Cosa rappresenta per te?

Penso che ci siano state varie fasi del mio rapporto con il teatro ma sempre, di base, il bisogno di essere amata. Credo che ogni artista faccia questo mestiere per soddisfare questo bisogno. Il teatro è un processo conoscitivo che tiene insieme indagini intellettuali e viaggi viscerali. Unisce le parti, è un processo conoscitivo di se stessi e del mondo ed è capace di superare quella convinzione tutta occidentale della separazione tra mente e corpo. Il processo teatrale è l’incontro, in ogni senso.

Chi sono stati i tuoi maestri? 

Ho trovato una maestra in Lucilla Morlacchi, una grande attrice, una donna estremamente coerente che mi ha accompagnata per un po’ con il suo grande mestiere. Credo di aver imparato molto anche con Andrea Chiodi, mio marito: non solo da lui ma dal nostro crescere insieme. E certamente da Carmelo Rifici: il suo metodo di lavoro e di indagine sui personaggi mi ha segnata individualmente e professionalmente. Nello studio ci siamo scavati e modellati.

Nei teatri di tutta Italia in questa stagione “De Gasperi: l’Europa brucia”, un lavoro scritto da te, diretto da Carmelo Rifici e interpretato da Paolo Pierobon. Come ti sei avvicinata al personaggio di De Gasperi? Quanto è attuale la sua storia?

Da molti anni volevo lavorare su Alcide De Gasperi, in particolare sul suo linguaggio, su come la sua retorica sia cambiata tra i discorsi di Parigi e Washington e su come la lingua della politica sia in generale molto cambiata. Sono stata invasa dalla sua figura potente e al tempo stesso così corretta e così ossessionata dalla sua coscienza, dal dovere di “fare bene”. E poi il rapporto con la figlia: avevano un rapporto strettissimo e la relazione tra un padre e una figlia, come ho già detto, è un tema universale. Ho pensato che fosse doveroso dedicare un lavoro a De Gasperi, rendergli giustizia, quando ho visto il film su Churchill: in quel momento ho pensato al patriottismo degli inglesi e a quanto in Italia invece questo non sia mai accaduto. De Gasperi è stato un politico vero e studiando se ne scoprono anche i lati oscuri: è stato struggente immaginarlo a gestire una situazione complicatissima come quella del secondo dopoguerra, messo alle strette dagli equilibri internazionali e dalla sua coscienza. Il lavoro ruota intorno a un uomo che deve prendere decisioni importanti, consapevole che quello che sceglierà di fare avrà conseguenze grandi e durature, quelle decisioni di fatto pesano anche oggi. E il tema dell’utilizzo delle parole e di come possono plasmare la realtà, oltre a quello di un’indagine su luci e ombre di un uomo di Stato, sono temi innegabilmente attuali. 

Cosa porti con te delle tue origini trentine e della montagna?

Parlando con le persone mi rendo conto che molte pensano che io viva ancora in Trentino. Io non sento di essere ancora lì, ma forse nella mia struttura porto molto con me. 

Sicuramente la caparbietà, la costanza, il pensare sempre anche agli altri. Credo che questo arrivi dal fatto che non ci siano differenze sociali sostanziali in Trentino. Vivendo poi altrove ho realizzato che lì non ho mai sentito la distinzione tra classi sociali che invece si avverte in altri luoghi. La società in cui sono cresciuta era costruita su una certa uguaglianza, mi pare. Chi aveva meno, veniva aiutato. 

In Trentino la politica si è sempre occupata di questo aspetto più che altrove: nelle comunità piccole si coltiva l’ascolto. Mi porto dietro anche l’importanza del dialogo tra generazioni: in Trentino grazie all’associazionismo, alle bande, alle filodrammatiche, intorno a un interesse comune si riuniscono giovani e anziani. E la carità: essere attenti agli altri in montagna è inevitabile e questo permea tutta la società.

Non significa che io abbia amato tutto del Trentino, per esempio credo che l’attitudine un po’ chiusa, sempre sobria, non permetta di far emergere alcuni conflitti e talenti particolari (che emergendo provocherebbero invidia e quindi disordine) e che quindi alcune istanze rimangano sopite. Ma credo di avere radici chiare e questo mi permette di metterle in discussione con più determinazione. 

Che progetti ci sono nel tuo presente e nel futuro più vicino? 

Sto lavorando a un nuovo spettacolo che per ora si chiama Valeria e Youssef, che debutterà al Centro Teatrale Bresciano ad aprile con la regia di Andrea Chiodi. Tratto dalla storia vera di Youssef, uno degli attentatori dell’attacco terroristico a Londra, il 3 giugno 2017, il lavoro si concentra sul rapporto tra una madre che ha educato alla religione un figlio, che ha poi scelto la radicalizzazione. Il testo è ora in lavorazione e sono divisa tra la preoccupazione e l’eccitazione: sto esplorando pezzi di storia contemporanea, il rapporto tra mondi lontani e diversi, la relazione tra una madre e un figlio, la fede. Vorrei arrivasse il più possibile perché sono temi appassionanti e importanti, ne sento la responsabilità.

“Volevo fare l’antropologa

Il libro che stai leggendo? V13 di Emanuele Carrère

Il tuo numero preferito? 2 (il primo che mi è venuto in mente); 3 (il numero magico, la Trinità, la compiutezza, il numero dei miei figli) 7 (il numero dei miei fratelli)

Il tuo colore preferito? Verde, il colore del bosco

Il piatto che ami di più? La carne salada

Il film del cuore? Forse “Babel” di Inarritu. Ma penso che Sorrentino sia un regista incredibile e che vorrei attingere alla meraviglia italiana di Fellini e alle sceneggiature americane degli anni di “Tootsie”

La squadra di calcio che tifi? Non seguo il calcio

L’automobile preferita? Non saprei, ma mi piacciono le macchine piccole

Il viaggio che non sei ancora riuscita a fare? Balcani e Europa dell’Est

Hai animali domestici? Una gatta, di nome Bebe.

Cantante, compositore o gruppo preferito? Lucio Battisti e Lucio Dalla per la poesia dei testi, ma ascolto molto Cohen ultimamente. “Hallelujah” ha un testo incredibile

Se non avessi fatto quello che hai fatto, cosa avresti voluto fare? L’antropologa

La cosa che ti fa più paura? Che succeda qualcosa di brutto ai miei figli

Il difetto che negli altri ti fa più paura? La brama di potere

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Pubblicato da Susanna Caldonazzi

Laureata in comunicazione e iscritta all'Ordine dei Giornalisti del Trentino Alto Adige dal 2008, inizia la sua esperienza professionale nella redazione di Radio Dolomiti. Collabora con quotidiani, agenzie di stampa, giornali on line, scrive per la televisione e si dedica all'attività di ufficio stampa e comunicazione in ambito culturale. Attualmente è responsabile comunicazione e ufficio stampa di Oriente Occidente, collabora come ufficio stampa con alcune compagnie, oltre a continuare l'attività di giornalista free lance scrivendo per lo più di di cultura e spettacolo. Di cultura si mangia, ma il vero amore è la pasticceria.