Biancaneve e la nostra immagine del mondo

Ricordate quando all’augurio “In bocca al lupo!” si rispondeva, senza sensi di colpa e con il cuore leggero come una piuma: Crepi (il lupo)!? Poi di colpo, le risposte cambiarono. Non da sole. Ci fu una trasformazione verso l’inesorabile edulcorazione dell’esistenza umana, accompagnata dalla tirannia del pensiero positivo e del politicamente corretto. 

Tutto doveva sembrare trasparente, misurabile e razionale, vestito di meritocrazia e giustizia sociale e ambientale.

 Cambiarono i nostri stili di vita, i nostri linguaggi e dunque anche i nostri modi di dire. Il primo “Viva il lupo!” arrivò circa un decennio fa e mi lasciò un po’ esterrefatta.  L’interlocutore che lo aveva pronunciato – persona colta e sicura di sé – mi spiegò che era ormai di buon auspicio augurarsi che il lupo vivesse.  Non ne ero molto convinta: non era meglio che il lupo crepasse, così ci si salvava? Ma questo dubbio rimase irrisolto. Fino a che, dopo circa un lustro da quel primissimo “viva il lupo”, notai che ormai non vi era più nessuno che rispondeva “Crepi”. Solo io mi ero intestardita continuando a rispondere alla vecchia maniera.  Avrei dovuto farmene una ragione: quella formula con cui ero cresciuta era morta per sempre.

Sembra irrilevante, ma i modi di dire che cambiano, riflettono la variazione culturale.

Assieme a viva il lupo, le favole che ascoltavamo da bambini sono state stravolte al punto che oggi sono praticamente irriconoscibili. Nei libri dei fratelli Grimm l’abbandono di minori e il loro sfruttamento, il cannibalismo, la tortura, la violenza gratuita, l’essere sbranati da animali feroci, il femminicidio, lo schiavismo, i disturbi alimentari di ogni sorta, la tirannia, la prepotenza, la megalomania e la cattiveria erano temi ricorrenti. 

Ma oggi le visioni del mondo sono cambiate e sfido chiunque a raccontare a un bambino contemporaneo di come Pollicino venga abbandonato dai genitori più volte e con mille stratagemmi per poi finire quasi cucinato dalla moglie dell’orco. La verità è che non solo i bambini non capirebbero quel tipo di storie, ma pure gli adulti non hanno interesse a raccontarle. Non è solo perché, come dicono i sostenitori del politicamente corretto, le favole debbano essere rivisitate e adattate per essere più inclusive. Nel caso di “Biancaneve”, ad esempio, alcuni critici hanno sollevato problemi riguardanti la rappresentazione della bellezza come un requisito essenziale per il valore di una donna, sottolineando che ciò può trasmettere un messaggio negativo alle giovani lettrici. Ma non è questo il punto, suvvia. È che l’immagine che abbiamo del mondo oggi è completamente diversa da quella che emanava dalle favole del folclore europeo. Nelle favole emergeva un tipo antropologico preciso: un giovane o una giovane che dovevano superare una serie di prove per diventare adulti; queste peripezie le sperimentavano immersi in un mondo che non era un oggetto, ma un soggetto vero e proprio: aveva forze proprie, luoghi misteriosi e nascosti, respirava, agiva. Quanto è lontana questa concezione da quella che abbiamo oggi? Per noi il mondo non è più un soggetto ma un oggetto. Lo misuriamo, sezioniamo, dominiamo, colleghiamo, al punto che vogliamo “salvarlo”, così come dobbiamo salvare l’orso e il lupo, perché noi ne siamo i padroni, perché è tutto nelle nostre mani. La nostra è una cultura talmente antropocentrica, che le favole del folclore, che arrivano da un’altra era e raccontano sventure di persone fragili, sono ormai incomprensibili.

Allora l’unica favola che rimane oggi è quella del super-uomo o della super-donna, con i suoi super poteri… Ma attenzione a non farvi fregare: è, appunto, solo una favola: siamo fragili ancora quanto lo era Pollicino abbandonato nel bosco.

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Pubblicato da Sara Hejazi

Cittadina italiana e iraniana, ha conseguito un dottorato di ricerca in Antropologia culturale ed Epistemologia della Complessità. Accademica, scrittrice, giornalista, collabora con molte università e fondazioni italiane oltre a scrivere su diverse testate. Ha pubblicato i saggi L’Iran s-velato. Antropologia dell’intreccio tra identità e velo (2008), L’altro islamico. Leggere l’Islam in Occidente (2009) e La fine del sesso? Relazioni e legami nell’era digitale (2017). Il suo ultimo libro è “Il senso della Specie” (Il Margine 2021).