Seconda estate di guerra: e l’indignazione dov’è?!

Ci sono tante cose “leggere” di cui si potrebbe parlare in questa seconda estate di guerra alle porte di casa, ad esempio dell’ennesima riscrittura di una fiaba famosa (in questo caso, com’è ormai noto, Biancaneve, stavolta senza Principe azzurro né nani), o di intemperanze verbali di cronisti sportivi di cui faremmo volentieri a meno. Ma, appunto, questo è il secondo anno di guerra in Ucraina, una guerra che gran parte di noi dava per conclusa, nel bene o nel male, entro una settimana dal suo inizio. Una guerra, infine, di cui non si vede la fine, essendo al momento tramontata l’ipotesi di un golpe interno in Russia ma anche quella di una rapida e vittoriosa controffensiva di Kiev.

Una cosa un po’ mi stupisce: quella che percepisco come una scarsa tensione – etica e politica – attorno al conflitto. Rispetto alle guerre balcaniche la differenza mi sembra palese. Negli anni ‘90 la mobilitazione era stata molto più massiccia. Parlo di mobilitazione concreta – dalle associazioni impegnate a portare aiuti negli scenari di guerra alla marcia per la pace di Sarajevo – ma anche di mobilitazione “intellettuale”, nel senso che di guerra si discuteva continuamente, così come si discuteva di un ipotetico futuro post-bellico.

Certo, anche adesso una parte del volontariato si sta impegnando per soccorrere le vittime del conflitto, ma in generale lo slancio sembra essere molto minore, e così l’indignazione dell’opinione pubblica. Perché questo disinteresse? Provo a formulare qualche ipotesi. 

La prima, la più banale: l’Ucraina è più lontana della ex-Jugoslavia, che molti avevano visitato quanto meno in vacanza. E ciò nonostante molte persone di origine ucraina in realtà vivano fra noi, e lavorino al nostro fianco (spesso anche “per noi”, come noto, cioè con i nostri anziani). Come ipotizzava Victor Hugo, il nostro coinvolgimento nelle sofferenze altrui cala a mano a mano che cresce la distanza (fisica o emotiva)  dalle vittime.

Seconda ipotesi: questa guerra è arrivata in coda a una serie di eventi negativi. Prima il crollo della finanza mondiale, nel 2008-9, poi, quando iniziavamo a riprenderci, il Covid. E in coda al Covid, la guerra, che ha comportato fra le altre cose, in Italia, un’impennata straordinaria dei prezzi, come ben sanno coloro che in quel periodo si sono addentrati nel labirinto del Superbonus. La questione non era “aiutare l’Ucraina o tenere acceso il condizionatore”, come banalizzato dal premier Draghi. Per molti è diventata una questione di sopravvivenza. E questo ha nuociuto non poco alla causa della solidarietà.  

Per terzo direi proprio lo scarso coinvolgimento della società civile, che in quest’ottica collocherei fra le cause dello scarso interesse per la guerra oltre che fra le conseguenze. Perché se è vero che per la maggior parte dei cittadini la criminale invasione dell’Ucraina da parte della Russia è stata una sorpresa, è anche vero che la reazione dell’Occidente – l’invio di armi, in primo luogo – è partita subito, come se la macchina militare fosse stata perfettamente oliata. Fin da subito, a differenza, ripeto, che nei Balcani, questo conflitto ha assunto i caratteri del conflitto fra Stati, il classico conflitto novecentesco combattuto per ragioni geopolitiche sopra le teste dei cittadini comuni. La percezione di una guerra combattuta per la difesa di valori imprescindibili, la libertà, la democrazia, l’autodeterminazione dei popoli, è passata in secondo piano. Allo stesso modo, mese dopo mese, la guerra è scivolata nelle pagine interne dei giornali e inizia a latitare anche sui social, mentre in tv è diventata puro storytelling. Tutto questo non fa bene alla causa della pace, che è la prima causa per cui varrebbe la pena battersi.

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Pubblicato da Marco Pontoni

Bolzanino di nascita, trentino d’adozione, cittadino del mondo per vocazione. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, giornalista dai primi anni 90. Amori dichiarati: letteratura, viaggi, la vita interiore. Ha pubblicato il romanzo "Music Box" e la raccolta di racconti "Vengo via con te", ha vinto il Frontiere Grenzen ed è stato finalista al premio Calvino. Ma il meglio deve ancora venire.