Censure o solo furbe operazioni di marketing?

Molti di voi avranno sentito parlare della presunta “censura” ai danni dei libri per l’infanzia di Roald Dahl, che ha suscitato nel mondo un’ondata di indignazione. Ho messo censura fra virgolette perché in effetti di solito la censura viene messa in atto da un potere nei confronti di una qualche opera giudicata scomoda, immorale o quant’altro. Il caso classico in Italia è quello di “Ultimo tango a Parigi”, che nel 1972 venne addirittura mandato al rogo. Il caso di Dahl – autore britannico, morto nel 1990, alla cui penna si debbono alcune storie divenute ormai dei classici come “La fabbrica di cioccolato” – è in effetti qualcosa di un po’ diverso. Ad operare i cambiamenti, ad esempio togliendo parole giudicate offensive per la sensibilità contemporanea, come “grasso”, è stata Netflix, proprietaria esclusiva dal 2021 dei diritti d’autore dello scrittore. Più che una vera e propria censura sembrerebbe una furba operazione di marketing.

A monte vi è la cosiddetta “cancel culture”, ovvero la tendenza a cambiare le opere del passato quando il loro contenuto è considerato oggi inaccettabile. Devo averlo già scritto una volta ma ci tengo a ribadirlo: non appartengo a quella categoria di persone che giudicano il passato intoccabile. Negli Stati Uniti, fra l’altro, oggi c’è chi ci marcia con questa idea dell’intoccabilità. Si tratta di conservatori che vogliono contrastare la giusta, doverosa rilettura della storia –  e dei simboli che la storia ci ha trasmesso – per dare finalmente spazio al punto di vista delle vittime, delle minoranze, di chi è stato a lungo estromesso dalle leve del potere (le donne, i popoli nativi, i neri oggetto della tratta degli schiavi ecc.). Ovviamente, però, è necessario distinguere. Se parliamo di un’opera pubblica, come ad esempio il Monumento alla Vittoria di Bolzano, è chiaro che parliamo di qualcosa costruito con un’evidente finalità celebrativa. Questa finalità sopravanza il valore artistico – spesso modesto – dell’opera stessa. Nel momento in cui la finalità viene meno non ci trovo niente di scandaloso a modificare l’opera. Se viene fatto in una maniera intelligente come quella che è stata trovata per il Monumento alla Vittoria, tanto meglio. Meglio soprattutto di una secca rimozione, che spesso scatena nuovi conflitti, quando invece il fine della rilettura di un’opera del passato dovrebbe essere quello di chiarire e porre rimedio alle ingiustizie commesse.

Diverso è quando la rilettura del passato diventa un’operazione conformista, un modo per passare un colpo di spugna sulle presunte “macchie” e mostrare una bella facciata pulita. Farlo su opere di grande valore estetico, soprattutto – siano esse libri, film o quant’altro – diventa una truffa ai danni di chi vi accosta oggi, e che invece ha tutto il diritto di conoscere l’originale, e di farsi una sua idea in proposito. La mancanza di flessibilità, dei censori umani o degli algoritmi, a volte produce risultati grotteschi. Ad esempio: qualche mese fa i media hanno segnalato che “Rock ‘n’ Roll Nigger”, una canzone di Patti Smith contenuta nell’album “Easter”, del 1978, era sparita dalle piattaforme. Probabilmente la causa è che la parola “nigger”, anche se l’artista l’aveva utilizzata in senso provocatorio, e in definitiva positivo. L’ignoranza del contesto, in molte di queste operazioni di censura benpensante, produce mostri.

Condividi l'articolo su:
Avatar photo

Pubblicato da Marco Pontoni

Bolzanino di nascita, trentino d’adozione, cittadino del mondo per vocazione. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, giornalista dai primi anni 90. Amori dichiarati: letteratura, viaggi, la vita interiore. Ha pubblicato il romanzo "Music Box" e la raccolta di racconti "Vengo via con te", ha vinto il Frontiere Grenzen ed è stato finalista al premio Calvino. Ma il meglio deve ancora venire.