Cosa deve educare l’arte?

Mi preoccupa questa tendenza moralista che vedo emergere qui e là dopo qualche evento tragico che colpisce l’opinione pubblica, di indicare fra i responsabili dei peggiori delitti ad esempio i cantanti trap e le loro canzoni sessiste. Beninteso: molte di quelle canzoni fanno pena per quanto sono banali, stereotipate e volgari, ed è bene dirlo. Il punto non è questo. Il punto è che dobbiamo guardarci dalla tentazione di esercitare forme di censura sulla musica, così come sul cinema, sulla letteratura o su altre forme di espressione artistica. In primo luogo perché la vera arma che bisogna usare contro le brutte opere è quella della stroncatura. Dobbiamo dire che certe opere, o presunte tali, sono mediocri, o orribili. Dobbiamo dirlo bene, cioè motivarlo.
E magari incoraggiare la produzione di opere migliori.

In secondo luogo perché la censura quasi sempre finisce per colpire non le cose di basso valore ma quelle di valore elevato. In effetti, che io ricordi, fin dai tempi del famoso rogo di “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci, c’era chi teorizzava che fosse proprio questo che la censura doveva fare. Non colpire opere dozzinali, che in realtà non hanno una grande influenza, e quindi non svolgono un ruolo diseducativo importante, ma quelle di valore elevato, perché il loro peso specifico è più alto. 

È facile comprendere quanto questo ragionamento sia pericoloso. Certo, le produzioni artistiche, anche quando di fatto sono semplici prodotti d’intrattenimento, possono avere un’influenza sulle persone. Ma ciò che la società deve fare non è censurare le opere “pericolose”, quanto dare alle persone il senso critico necessario per decodificarle. Se io ascolto un cantante trap che parla di violenza o droga, o se guardo un film di Tarantino in cui un protagonista maschile ammazza a pistolettate una donna perché parla troppo (e sto parlando di Tarantino, un regista unanimemente considerato un maestro) devo essere in grado di distinguere la finzione – o la rappresentazione – dalla realtà. E, più in generale, devo essere in grado di distinguere le opere che valgono qualcosa da quelle che non valgono niente, e che farei bene a lasciar perdere.

L’arte si occupa di ciò che sta attorno e dentro all’artista. Si occupa della realtà (in senso lato). Ed è – come rivendica Baricco nell’introduzione al suo ultimo romanzo – assolutamente libera. Non si deve pretendere da essa una funzione educativa, a parte quella che svolge nell’educare la nostra sensibilità, la nostra capacità di “vedere”, e di “sentire”. Così come non si deve pretendere che svolga, ad esempio, un ruolo nel marketing territoriale. Altrimenti si finisce per rimproverare a uno scrittore come Cognetti di avere scritto un libro da cui la Valsesia non ne esce tanto bene. Chi oggi legge un classico della letteratura italiana come “La coscienza di Zeno” si rende conto che non propone un modello ideale di uomo. Zeno Cosini è odioso per quanto è egoista e infantile, anche nei suoi rapporti con le donne. Né la visione generale del futuro trasmessa dal romanzo è una visione di speranza. Che cosa dovremmo apprezzare allora in un’opera del genere? La sua capacità di farci riflettere, di metterci di fronte alle nostre debolezze e alle nostre meschinità, la sua efficacia nello scendere nei meandri della psiche di un uomo. 

Ma apprezzare tutto questo significa affinare la nostra sensibilità. Il che non è così facile, nella società dello spettacolo e delle iperconnessioni in cui siamo immersi da mane a sera. Forse è da qui che bisognerebbe partire.

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Pubblicato da Marco Pontoni

Bolzanino di nascita, trentino d’adozione, cittadino del mondo per vocazione. Liceo classico, laurea in Scienze politiche, giornalista dai primi anni 90. Amori dichiarati: letteratura, viaggi, la vita interiore. Ha pubblicato il romanzo "Music Box" e la raccolta di racconti "Vengo via con te", ha vinto il Frontiere Grenzen ed è stato finalista al premio Calvino. Ma il meglio deve ancora venire.